Racconto di Francesca Coppola
(Quarta pubblicazione)
Vennero a vedere la morte. La culla sosteneva la scena raccapricciante. Lei sembrava viva, il capo molleggiava da destra a sinistra, le labbra ancora semi aperte, i piccoli occhi non partecipavano alla pantomima. Aperti sì ma non vigili. L’odore di pupù permeava la stanza, i commensali, come da prassi, fecero finta di nulla. Alle loro spalle, altre sedie parlavano di decomposizione.
Non era suonata la sveglia, non ero comunque riuscito a dormire.
Mi sono messo in piedi, ho arruffato il lenzuolo sbattendolo in lavatrice e poi subito la prima toeletta per cercare di neutralizzare il sudore. Tutte azioni meccaniche svolte ancora sotto shock. Il lavandino della cucina era sporco e l’acqua scorreva inesorabile. Sul tavolo c’erano cartacce e penne spuntate. Una sensazione spietata di vertigine.
Ho frugato nei contenitori sembrando interessato per poi scegliere sempre lo stesso tè: Breakfast english twinings. Non facevo che pensare all’incubo appena fatto, ricordavo i buchi attraverso le lenzuola e mani rosse capovolte sulla parte alta delle cosce; mentre nella stanza accanto, i bambini scelti dagli orchi, dopo attento esame, attendevano di essere mangiati.
Mi lasciai cadere sulla prima sedia, giravo a vuoto la tazza di acqua bollente senza zucchero. Fuori faceva caldo, la città dormiva ancora, gli edifici sembravano inalare residui di aria. Mancava poco all’alba: presto sarebbe stata fatta luce su ogni linea, ogni angolo contorto della zona.
Solo poche ore fa ero corso via dall’ospedale, convinto che ritornare a casa, avrebbe potuto allentare i pensieri. Nina mi aveva accolto con qualche fusa di troppo. Aveva dipinto sul visetto nero un’aria di finto rimprovero per ricordarmi di abbondare con le crocchette. Mi ero spogliato in fretta per cercare di allontanare quel tanfo da letamaio. -Non sarebbe bastato l’intero contenuto di un acquedotto per lavare via l’odore putrido di morte-.
Per un momento mi ero sentito al sicuro, avvolto nel mio accappatoio bianco, anche se poi il senso di inquietudine era ritornato, quando avevo notato la piccola macchia resistente sulla manica. Erano fragole ma vedevo solo sangue. Sangue che, alla fine di quella serata, non era sgorgato. La sala operatoria era pulita. L’anima no. Il sangue ribolliva i miei organi interni.
- Soffocava quel neonato. Sta soffocando. Era già soffocato. –
Lo avevano portato in ospedale già cianotico. Avevano tentato tutte le manovre, ne sono testimone. “Federica” sentivi urlare la madre nel corridoio. “Federica”, insistendo sulla A finale, in maniera così straziante, come se il solo chiamarla potesse apportare qualche modifica allo stato delle cose.
Federica era morta. Non aveva più di qualche mese. Non ci capacitavamo cosa l’avesse strozzata. Poi l’illuminazione cominciò a convincere un po’ tutti: Sidis. Già non poteva essere altro. In fondo chi avrebbe potuto farle mai del male?
Il dottore aveva appurato l’assenza di ecchimosi, dunque non si poteva parlare di maltrattamento. Federica aveva gli occhi aperti ma non respirava, una specie di bava le colava dalla bocca semi dischiusa. La notizia si era sparsa velocemente, un’altra dottoressa era venuta a constatare la morte. Ferma, attonita sembrava in preghiera. Tutti la fissavamo. Le usciva qualcosa dalla bocca, non sembrava più bava. La dottoressa spalancò gli occhi, girò le spalle, invocando la chiamata alle forze dell’ordine. Poi bisbigliò un codice.
Eppure, in qualità di OSS, lavoravo in quell’ospedale da due anni, storie brutte, a volte raccapriccianti, non erano purtroppo mancate. Questa aveva qualcosa di più aberrante.
Forse perché si trattava di una neonata? Chi avrebbe fatto del male ad una creatura talmente indifesa?
Di lì a poco sarebbe intervenuta una equipe specializzata per raccogliere i prelievi. Ogni parte del piccolo corpo sarà violato. Lo scempio, così, sarà completo.
La motivazione che, per gli altri, era diventata evidente, non lo era per me ma non riuscii comunque a fare domande. Si avvertiva l’agitazione e, quando raggiunse picchi di isteria, il team di esperti ci fece uscire.
La mamma di Federica piangeva. Si disperava. Apriva e chiudeva le braccia, poi si tirava i capelli. Il padre di Federica tentava di placare la moglie, chiudendo da qualche altra parte il proprio dolore. Il nonno sedeva sulla sedia, silenzioso.
“C-o-s-a –è- s-u-c-c-e-s-s-o –a- F-e-d-e-r-i-c-a? la madre ripeteva e scandiva ogni parola come un automa.
Poi giunse la dottoressa, con l’aria schizzata e le mani in grembo. I suoi capelli erano rossi. Ho creduto avesse pianto.
<<Signori>> esordì. <<La piccola non ce l’ha fatta. Quando è giunta presso la nostra struttura, il suo battito, quasi, non c’era. Ora, per chiarire le cause del soffocamento, è stata avviata un’indagine>>.
Un tonfo sordo. All’improvviso. Il nonno cadde dalla sedia, lui sapeva. Lui potrebbe spiegare per filo e per segno. Altre volte aveva infilato un dito in quella boccuccia. Quella volta no. La bimba succhiava come fosse un ciuccio.
Il padre della neonata corse ad alzarlo. Il nonno farneticava.
<<Non volevo, non volevo>> ripeteva.
<<Papà calmati, cosa c’entri, non è colpa tua>>, disse il figlio in stato catatonico. <<Federica era con te, ma tu non hai fatto nulla>> affermava lui convinto ma non aveva capito ancora nulla.
Come se fosse indemoniata, come se all’improvviso le si fosse accesa una lampadina nel cervello, in un momento la madre arrivò a puntare un dito contro il vecchio. Una madre sa sempre.
<<C O S A H A I F A T T O A F E D E R I C A ?>> urlò, scaraventandosi sul vecchio.
Il nonno aveva negato ogni coinvolgimento. Ognuno, a modo suo, aveva cercato una spiegazione.
La mia, non mi ha fatto dormire sogni puliti.
Oggi arriveranno i risultati. Il tè è freddo. Ci vuole un’altra doccia.
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