Racconto di Xano

(Prima pubblicazione – 21 dicembre 2020)

 

 

 

Nacqui in terre lontane, in quelle terre boscose dove esseri umani ed elfi erano soliti cacciare.

Era metà Estate, il mese che celebra Erastin. Non ebbi da subito un nome.

La mia ammë era un’elfa di una bellezza disarmante, tanto che la chiamarono Eledhwen, che in elfico starebbe per “Splendore degli elfi”.

Io, però, ero figlio di un amore sbagliato.

Non ho mai visto il mio atar. Ne ho sentito parlare solo dopo, quando, crescendo, mi apparve chiaro di essere diverso dagli altri elfi. Mio padre era un uomo.

Mia madre mi ripeteva sempre che ero speciale, che sarei diventato il più grande elfo della nostra comunità proprio per via di questa mia diversità.

Mi chiamò Azura, [“Che ha il colore del cielo sereno”] in virtù del colore dei miei occhi.

La nostra comunità viveva agli estremi della città degli uomini, Iperborea, nelle vicinanze della grande Foresta Ubriaca e del grande fiume Saetta. Lì ci dedicavamo prevalentemente alla caccia e all’artigianato, anche se la casta sacerdotale rimaneva la più rispettata e tutti aspiravano a farne parte. Io, però, non ho mai compreso la loro religione né tanto meno i loro continui e assidui rituali.

Venivo trattato ed educato come qualsiasi altro elda, eppure ho sempre sentito il peso della mia diversità: sono sempre stato il più basso tra i miei coetanei e le mie orecchie non sono mai state appuntite e pronunciate come le loro; persino la mia pelle era più rosea.

Perciò la mia comunità mi designò per un incarico a loro detta fondamentale: essendo anche figlio di un umano, avrei servito gli elfi come intermediario con gli uomini.

Gli esseri umani, rozzi, dediti all’agricoltura, barattavano i loro raccolti con i nostri manufatti, poiché li consideravano magici. Perciò ero in città molto spesso per portare i nostri manufatti e ricavarne il maggior profitto.

Gli esseri umani erano strani e molto diversi tra di loro. Avevo sempre a che fare con uomini brutti ed ignoranti. Per questo motivo ho imparato a parlare molto bene il Comune, così era molto più facile raggirarli; tutti loro erano molto superstiziosi e timorati delle divinità – almeno in pubblico –.

Un giorno come un altro, quando andai in città con la mia sacca per adempiere al mio compito, mi imbattei in quest’uomo. Era diverso dagli altri, sicuramente più aggraziato nei lineamenti. Penso che me ne innamorai, anche se allora non me ne resi conto. Scambiò un’enorme quantità di pane per uno dei più semplici manufatti elfici… molto strano. Eppure pensai a lui molte volte da quel giorno, addirittura lo sognai. Tempo dopo lo rividi mentre ero sulla via del ritorno. Mi disse che l’amuleto elfico aveva fatto effetto, e la donna da lui amata l’aveva finalmente sposato. Era molto felice, eppure mi confessò di essere attratto da me, dalla mia parte elfica.

La cosa al momento mi fece sorridere, ma dopo appena un istante ne fui spaventato. Corsi al villaggio, senza dire nulla. Cos’ero? Cosa sarei dovuto essere?

Questo mio peso s’ingigantì, sempre di più, fino a farmi allontanare dalla comunità.

Dentro di me sentivo qualcosa, non sapevo cosa fosse, ma l’avvertivo in modo così vivido. In fondo al mio cuore si fece d’un tratto chiara una cupa sensazione di tormentosa, sconfinata solitudine e di distacco da ogni cosa. Avevo paura d’impazzire.

Andai nei boschi per seguire questo impulso, per vedere se fossi riuscito a conoscere davvero me stesso, per non scoprire in punto di morte di non aver vissuto. Volevo vivere profondamente.

D’altronde cosa ci facevo ancora lì, se non coltivare il mio senso di inadeguatezza?

Non ebbi nemmeno il coraggio di salutare mia madre, timoroso di sentirmi dire “rimani”; anche se credo avesse capito quale fossero le mie intenzioni. Non a caso la sera stessa quella donna, che tanto aveva dovuto subire per un amore fugace, volle lasciarmi in dono uno strano anello che già in passato avevo notato. Lo portava sempre al dito medio della mano destra, e sopra vi era inciso un occhio azzurro sotto il quale campeggiava la scritta elfica Úmarth [“Malasorte”]. Non aveva mai voluto parlarmene, fino a quel momento: mi disse di averlo fatto con le sue stesse mani quando mio padre, l’uomo senza volto, l’aveva abbandonata.

«Niente, più della malasorte, c’insegna a conoscerci. Anche i fiori devono appassire, cadere, per poter fiorire».

Adesso quello strano anello del malaugurio è al dito medio della mia mano destra.

Mi stavo gettando un intero mondo alle spalle, portando con me solo il vuoto dentro; con passo incerto, iniziava un viaggio eterno che sapevo essere casuale.

Ma dovunque sarò, avrò sempre stampato nella mente il suo sguardo durante la mia ultima cena al villaggio, quei suoi due occhioni guardarmi come non avevano mai fatto prima; eppure, oltre il dispiacere, riuscivo a vederci anche dell’orgoglio.

Seguii il corso del fiume, ma il mio adattamento alla grande foresta fu lento. Patii il freddo, la fame e la solitudine troppo a lungo. Di giorno regnava sovrano un silenzio funebre che incuterebbe terrore anche ai più audaci; di notte, invece, un frastuono terrificante di urla, ruggiti, sibili, versi e fischi che mi faceva gelare il sangue.

Costruii un arco e delle frecce, sia per difendermi sia per procacciarmi del cibo, anche se la mia alimentazione si basava prevalentemente su bacche, funghi e qualche frutto.

Non so per quanto tempo vagai tra quegli enormi alberi dai rami spogli prima di incontrare un uomo. Era molto piccolo, e anche molto vecchio. Aveva indosso solo uno scialle di pelle di coyote e mi disse di essere uno sciamano di Tenochilatòn.

Si presentò come Hiamovi, Buon Viso di Coyote di Luna.

Era venuto nella foresta perché è lì che vanno a morire gli sciamani come lui, per riprendere il loro posto nella natura. Mi disse di avermi sognato. Chiese di me, cosa fossi. Gli raccontai la mia storia e che mi ero avventurato nella foresta da qualche tempo. Lui mi rispose che avrei trovato il mio posto, ma che avrei dovuto cercare ancora e superare molti ostacoli. Mi chiamò Moyocòyatzin, che nella sua lingua stava per “inventore di sé stesso”, e mi lasciò il suo scialle: mi sarebbe servito – a suo dire – per riconoscere i miei fratelli.

«Sarai molto più di quello che sei ora», furono le sue ultime parole, e furono per me! Poi spirò.

Aveva vissuto troppe vite e probabilmente ne era esausto.

Passai la notte nelle vicinanze dell’albero su cui era poggiato il suo corpo che, quasi come per magia, pareva già farne parte.

Quell’uomo, da quel giorno, è diventato mio padre.

Decisi di piantare dei fiori, le nieninquer, comunemente bucaneve, in modo tale da ricordare per sempre il luogo della sua scomparsa. Ma anche perché mia madre, Eledhwen, mi ha insegnato che alcuni fiori hanno dei significati particolari, legati a miti o leggende oppure a caratteristiche specifiche. La nieninquë è simbolo di vita, di una nuova primavera di speranza.

Vagai ancora a lungo nella grande foresta. Il freddo divenne più rigido, il sole sempre meno caldo. Prima dell’inizio della stagione delle piogge, giunsi ad un villaggio di nome Rario. Lì mi fermai in una locanda, dove conobbi quest’omone dalla pelle verdastra con canini sporgenti e orecchie un po’ a punta, naso adunco forato, completamente glabro e calvo, di nome Tsadok.

Era molto burbero all’inizio, come qualsiasi altro della sua razza, ma ciononostante riuscii ad entrare in empatia con lui. La sua storia era molto simile alla mia. Mi ospitò per qualche giorno, cosa che mi ha permesso di allenarmi con l’arco con molta più calma.

Quando finirono le piogge era tempo di riprendere il mio cammino. Tsadok volle sapere dove fossi diretto, e, quando gli dissi che ero alla ricerca della mia direzione, decise di accompagnarmi.

Mi disse che mi avrebbe lasciato alla foce del grande fiume Saetta. Da lì avrei proseguito da solo.

La grande Foresta Ubriaca divenne sempre più inospitale, e l’aiuto di un mezzorco risultò quanto mai utile in molte situazioni: il cibo fu più facile da procacciare e anche il tempo trascorreva più piacevolmente.

Ma una notte, una pioggia violenta ed improvvisa ci costrinse a rifugiarci in una grotta naturale. Decidemmo di accamparci lì, in attesa che la pioggia smettesse. Quella notte accadde qualcosa che non mi aspettavo: Tsadok mi saltò addosso.

Non avevo mai sperimentato il sesso prima di allora. Lui era rude e violento – sarà per sua natura –, mentre io ero inizialmente restio: mi aveva colto di sorpresa, ma soprattutto non avevo la ben che minima idea di cosa dovessi fare. Poi mi lasciai andare e mi feci trasportare.

Fu doloroso, ma stranamente piacevole.

Il mattino seguente il sole rischiarava la foresta. Mi svegliai prima di Tsadok. Presi il mio arco e mi avviai. Non so perché lo feci, ma lo feci.

Camminai ancora a lungo prima di arrivare a quello che, apparentemente, sembrava un torrente. Non so quanto tempo poteva essere passato, ero convinto che Tsadok fosse già ritornato al suo piccolo villaggio senza provare a cercarmi. Sovrappensiero, certo di seguire il corso del fiume, non mi accorsi che l’imponente massa delle acque si divideva e suddivideva in una moltitudine di fiumiciattoli, canali e canaletti. Perciò quel grande fiume che speravo essere il Saetta, presentava invece dell’acqua di una profonda tonalità rossastra, le cui sponde rocciose ne acquisivano diverse sfumature. Ero talmente stanco che decisi di immergermi ugualmente. Ma appena un attimo prima di toccare l’acqua con le dita dei piedi, venni strattonato all’indietro per un braccio. Davanti a me si parò questa bellissima donna che sembrava esser fatta di legno, con capelli di foglie e fiori. Mi rimproverò, spiegandomi che quello era il Rio Tinto, un torrente con un’elevata acidità causata dal ferro disciolto. Io non riuscivo a dire una sola parola, come se fossi bloccato: c’era qualcosa in lei che mi inquietava e che allo stesso tempo mi attraeva. Si presentò come Muna, mentre io non riuscii neanche a pronunciare il mio nome. Allora mi tirò per la mano verso la sua casetta sull’albero, completamente in legno, come se fosse parte integrante di esso. Mi raccontò che quell’albero, un’enorme quercia secolare lievemente inclinata, era il suo mondo e non poteva allontanarsene. Io stavolta non volli svelare tutta la mia storia, o forse semplicemente non mi riuscì; quindi mi limitai a raccontarle di essere in viaggio nei boschi, e che la mia casa poteva essere il mondo.

La notte stessa, su quella quercia, ho assistito ad uno degli spettacoli naturali più incantevoli della mia vita: nell’oscurità più profonda, tra rami e foglie pendenti, un gruppo di minuscole creature luminose diedero vita ad una danza di luci.

Muna li definì Spiritelli dell’aria, creature minute a cui era unita nella causa della protezione della natura. Quella notte è stata magica.

Muna mi aveva accolto in casa sua, e, dopo tempo, mi sentivo di nuovo al sicuro. Lei aveva solo la parte inferiore del corpo coperta da fogliame, e portava un ciondolo al collo: un laccio che si dispone su quattro cappi circolari intorno ad un quadrato. I quattro cappi del nodo rappresenterebbero gli elementi fondamentali (acqua, aria, terra e fuoco), gli enti primitivi della natura, da cui tutto si genera. Volle darmelo in dono, quel suo ciondolo. Io non avrei mai voluto accettare, ma le sue labbra legnose pronunciarono parole premonitrici:

«Il tuo cuore è puro, ma sento che il tuo spirito è inquieto. Questo ti sarà d’aiuto, un giorno».

Restai comunque lì per un po’ di giorni, anche perché non avevo idea di dove andare. Muna è stata sempre molto ospitale, e, dal canto mio, ho cercato di aiutarla in quei compiti che non poteva espletare. Finché non giunse il momento di riprendere il cammino fantasma.

Così Muna mi indirizzò verso la foce del vero fiume, il Saetta.

Prima di andare via, però, si presentò a noi uno gnomo, Barabao, guardiano della Foresta Ubriaca. Ci tenne molto a riferirmi che, semmai avessi voluto far ritorno, sarei stato benaccetto. Mi ero dimostrato molto utile a Muna in quei pochi giorni e, per lui, era come aver di fatto contribuito alla salvaguardia di quella parte di bosco.

Attraversai il Rio Tinto tramite una passerella di legno, per evitare qualsiasi tipo di contatto con quell’acqua. Delle volte anche la natura sa essere inospitale!

Passarono altre settimane prima che riuscissi finalmente a giungere all’agognata foce del grande fiume. Stavo seriamente iniziando a considerare di non riuscire più ad arrivarci!

Stavolta potei fare liberamente un bagno. La mia pelle rosea trovò ristoro in quelle limpide acque, i miei capelli rame, ormai lunghi e increspati, ritrovarono la loro lucentezza. L’acqua gelida, però, mi procurava non poco bruciore: avevo tagli di varia lunghezza su gambe e braccia.

Come non avevo fatto ad accorgermene prima?

Avevo perfino un taglio sull’avambraccio, abbastanza grande ed evidente, che stava cicatrizzando molto lentamente. Si deve pur sempre lottare contro vari ed eventuali bestie fameliche per sopravvivere durante tutto questo tempo.

Restai a mollo in acqua per un po’, per cercar di far rimarginare le ferite. Ripensavo a tutti gli incontri fatti, a come stessero assecondando questo mio stato di inquietudine, di inadeguatezza.

Le mie domande avrebbero mai avuto risposte? Sarei mai riuscito a trovare pace?

Alla fine mi accampai sulla riva stessa, con l’intenzione di fermarmi in modo tale da poter risanare e rinfrescare il mio corpo temprato.

Subito, già il primo mattino, venni svegliato di buon’ora da degli schiamazzi: poco più in là c’erano degli esseri umani, due donne per l’esattezza. Due corpi nudi, sinuosi, totalmente impegnati in giochi puerili. Quando si accorsero di me, mi chiesero chi fossi, cosa fossi. Mi dissero di venire da una città di umani nelle vicinanze. Avevano degli strani nomi, Alba e Josela.

Iniziarono a riempirmi di complimenti, mi ripetevano che avevo qualcosa di speciale. Ero confuso e compiaciuto allo stesso tempo. Nuotammo insieme nella foce del fiume.

Dopodiché mi chiesero di andare con loro alla cittadina che chiamarono Xatelòcos, poco distante da lì. Di certo la mia tabella di marcia non ne avrebbe risentito!

Il villaggio era sì modesto, ma molto accogliente. Alba e Josela erano cugine, e vivevano nell’immensa casa del padre di Alba, tale Felix Blurm, signorotto locale nonché ex cavaliere e araldo dell’Ordine della Luna Crescente ai tempi della Guerra delle Due Terre.

Era ancora molto pieno di sé, ma l’età avanzata si faceva sentire: sarà stato per questo motivo che era costantemente affiancato da uomini fidati. Mi accolse in casa sua come un principe venuto da lontano, ospitalità tipica dei suoi tempi o comunque di certo figlia della sua educazione. Quella stessa ospitalità che io non ho propriamente onorato, alla fine dei conti. Nonostante la senilità dell’araldo, Alba e Josela erano pur sempre due esuberanti fanciulle nel pieno della giovinezza! Dopo tutto il piacere è una delle cose più importanti di questa vita, tanto quanto il cibo e l’acqua!

La magione, che sovrastava le terre circostanti, era piena zeppa di stanze, una delle quali, esattamente alla fine del lungo corridoio che partiva dalla camera dell’araldo stesso, fu adibita per l’ospite, ovvero io.

Ero visibilmente a disagio: questo trattamento che oserei definire regale – considerato ciò a cui ero abituato – mi imbarazzava e non poco. Se non fosse che, la notte stessa, le due dolci pulzelle vennero a farmi visita nelle mie stanze, desiderose di divertimento. Potrei giurare di aver avvertito addirittura una celata volontà di disobbedienza, o quantomeno dispetto, nei confronti del cavaliere padrone di casa.

Sta di fatto che fui trascinato in una nottata ricca di febbrile ardore, con il furore tipico della giovane età. Almeno fin quando non fummo colti in flagrante da uno dei sottoposti sempre vigili, richiamato dal chiasso e dai gemiti. Alba e Josela sembravano divertite e soddisfatte di esser state scoperte, mentre io, impaurito dalle eventuali ritorsioni per l’offesa arrecata, non provai neanche a supplicare pietà. Facendomi largo come potevo tra i pochi uomini che accorsero per catturarmi, fuggii via in men che non si dica. E fortuna ha voluto che sono anche riuscito a recuperare tutte le mie cose.

Benvenuto nel mondo Azura!

A questo punto cercai solo di allontanarmi il più possibile. Avevo ormai abbandonato la direzione che stavo seguendo per dirigermi ad Ovest. Speravo sul serio che potesse essere Erastin a guidarmi. E pensare che non avrei nemmeno osato prendere in considerazione una cosa del genere prima di intraprendere questo viaggio!

Passai la notte sull’albero più massiccio, e alle prime luci dell’alba, convinto che non avessero più alcun motivo di cercarmi, mi avviai al di là del fiume. Lì la foresta era meno fitta ed intermezzata da grandi steppe di terra. Grandi mandrie di cavalli selvatici correvano libere nelle praterie.

Sostai in quelle zone per qualche tempo. Studiai, ammirato, quegli animali liberi, fino a che non mi decisi di addomesticarne uno. Mi ci vollero non pochi e disastrosi tentativi, ma alla fine riuscii a domarne uno: manto fulvido, vestito di notte, libero.

Il difficile arrivò dopo. Cavalcare mi risultava molto complicato: il roch mi permetteva di montarlo, ma era lui a guidare me. Mi ci volle più tempo del previsto per capire come fare, poi il mio cammino divenne sicuramente più comodo. Cavalcando, è come se la mia prospettiva fosse cambiata totalmente. Sviluppai sensibilmente, dall’alto del mio cavalcare, la percezione dei miei cinque sensi. Da allora ho evitato di imbattermi in numerosi pericoli.

Come dicono gli umani: prevenire è meglio che curare.

Viaggiare a cavallo velocizzò notevolmente il mio passo e anche la caccia fu molto più proficua; eppure la gestione dell’animale, soprattutto in quelle condizioni di mera sopravvivenza, divenne complicata. Infatti era sempre stremato e non di rado si bloccava durante il tragitto.

Avevamo macinato molta strada, quando all’orizzonte, tra i rami secchi degli alberi, intravidi delle montagne rocciose. Senza che me ne accorgessi, l’Inverno stava volgendo al termine. L’aria, la luce, ogni foglia di ogni albero preannunciavano l’arrivo imminente della Primavera.

A quel punto decisi che avrei proseguito di nuovo a piedi e volli restituire la libertà a quella celva che tanto mi era stata d’aiuto: lo ribattezzai Ennon [“Nato di nuovo”].

E devo ammettere che, in quel crepuscolo serale, quell’addio fu molto più straziante di molti altri.

L’animale sembrava non solo dispiaciuto di lasciarmi solo in quelle terre sconosciute, ma anche di non avermi potuto aiutare di più. Lo accarezzai a lungo prima di dargli una pacca sulla schiena per mandarlo via. Invece quell’animale, libero com’era, decise di restare con me tutta la notte, per poi andarsene il mattino seguente.

Aver ridato la libertà a quel cavallo nero splendente mi stampò un sorriso malinconico sul viso.

M’incamminai di buon’ora in direzione delle montagne, come se in altitudine sperassi di trovare più aria. Le montagne rocciose s’innalzavano, maestose, sulle grandi pianure. I picchi erano visibilmente ardui da attraversare, ma potevano essere varcati con relativa facilità in un unico punto.

Il passaggio era scosceso e mi ci vollero non so quanti giorni per oltrepassarlo. Il vento, freddo, tirava molto forte dall’altura, e mi costrinse ad accamparmi alla bene e meglio. Quei riposi furono usuranti. Perciò discesi come un sonnambulo, esausto, svuotato, e fui costretto a riposare per i giorni seguenti, per recuperare le energie.

Iniziai a pensare che non fosse quella la strada giusta, e che forse non ce ne sarebbe mai stata una.

Passai il tempo ad intagliare legno, costruendomi un nuovo arco, più lungo e teso.

Poi ripresi il mio cammino verso un altrove lontano, inesistente.

Dove andrò? Dove arriverò? Chi incontrerò?

Avevo mille domande e nessuna risposta.

Sapevo solo di dover andare avanti, che qualcosa mi aspettava, lì da qualche parte.