Racconto di Leonardo Gliatta
(Prima pubblicazione – 4 febbraio 2021)
“Pronto! Sono Cecilia, visto che giornata? Non fa che piovere da giorni. Io comunque per paura di finire marcita in casa ho seguito il tuo consiglio: ieri sera sono andata al tango bar.
Ci ho pensato e ripensato a questa storia che non devi dipendere da nessuno, niente inviti nè accompagnatori. Soltanto, all’ultimo secondo, riemergere dal libro di matematica finanziaria e gettarmi allo sbaraglio scatenata, come fanno i maschi il sabato sera.
Dici che sono pazza?
Ridi?
Arrivo trafelata al bar, con l’aria di chi è venuta a cercare guai. Irrompo col cuore attorcigliato in petto, mi siedo a un tavolo libero e scannerizzo. I più bravi sono i vecchi, quelli sì che ti sfiancano di giravolte. Poi ci sono i “posatori”, i ballerini professionisti che si aspettano un tuo applauso e rincorrono tutti gli specchi della sala. Un paio di belli. I più temibili. Una razza di personaggi romanzeschi, tutti tristi, soli, smarriti, tormentati. Ah dimenticavo: l’unica categoria che ti invita a ballare è invariabilmente quella dei bruttini stagionati, che lanciano occhiate come saette attraverso i tavoli. Dopo mezz’ora che bevo qualcosa di forte e rifiuto inviti dei suddetti, ecco che incrocio due occhi tristi. Siede tutto solo, occhi come fondi di caffè, l’espressione assente, fuoriluogo. Mentre rovisto nella borsa in cerca dell’accendino, una fiamma alle mie spalle. Mi volto e chi ti ritrovo?
Si chiama Jacinto ed è di Buenos Aires (quasi svengo), lo devo perdonare se parla male l’italiano.
Yo soy sin rumbo, mi dice, sono senza meta, girovago di professione.
La sala è tutta un fruscio, nessuno fa caso a noi, sono tutti impegnati a mettere in scena l’amore che si balla. Mi conduce in pista, mi avvince al suo abbraccio, io non faccio che scusarmi, sono una principiante, non vado mai a ballare, mi scuso anche quando i passi sono giusti e il mio corpo una fisarmonica tra le sue mani.
Torniamo a sedere e gli chiedo più che posso, a costo di sembrare invadente. Lui da principio è restio, scaccia un’ombra dai pensieri, poi mi parla dell’arrabal, delle luci dell’Avenida 9 de Julio, del muggito delle navi quando entrano nel porto.
Rido come un’idiota alle sue frasi strane, gli faccio sì con la testa, perdo la metà di quello che racconta, ma come lo racconta, mio dio, con quello sguardo che ti raschia via il cuore. Di me non parlo, non vorrei farlo morire di noia. Lo guardo in silenzio e penso che questa è la mia serata, che tutto procede come da copione. Un uomo, il tango, le vene che tremano. Mi accompagna fino alla porta di casa, e mi dice, senti qua: “deliziosa creatura profumata, voglio il bacio della tua boquita pintada”, che mi sembra così ridicolo, così vecchio stile, ma chissenefrega, mi ha baciata e in quattro e quattr’otto mi sono trovata nuda sul mio letto.
Di buon’ora ha preso le sue cose ed è andato via, siamo rimasti d’accordo di vederci oggi, doveva chiamarmi alle due e invece arrivano le sette e di lui nessuna traccia. Allora che ho fatto? Ho chiamato Marisa, che sono anni che balla tango, e le è bastato che pronunciassi il nome, Jacinto, per rivelarmi che il tizio lo conosceva, che non si perdeva mai un sabato in questo o quest’altro tango bar, e a tutte rifilava la stessa storia. Come, non hai capito che non era argentino? Ma se mi ha raccontato della sua vita a Buenos Aires nei minimi particolari! Povera ingenua, mi fa Marisa, quello non si è mai mosso da qui.
Allora non devo aspettare nessuna telefonata? Ma aveva degli occhi talmente tristi….
Dici che se ritorno sabato prossimo lo ritrovo?
Hai ragione, sì, è il solito cascamorto che sparisce all’alba.
Certo, non devo prendermela.
Sicuro.
In fondo, almeno ho avuto qualcosa di nuovo da raccontarti, questa sera.
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