Racconto di Silvio Fazio
(prima pubblicazione – 21 ottobre 2020)
Palermo, Corso Vittorio Emanuele.
Un tempo, quando ero ancora studente, dai Quattro Canti di campagna e fino alla Cattedrale, Corso Vittorio Emanuele era un luogo magico.
Si vendevano vecchi libri sulla città, sia edizioni pregiate che alla portata di tutti, foto di un tempo, cartoline antiche, pupi siciliani ancora fatti a mano.
Nelle botteghe, in attesa dei clienti, gli artigiani pupari scolpivano e dipingevano le teste dei paladini: di Angelica, Bradamante, Orlando e di Rinaldo il più amato dai palermitani.
C’erano anche piccoli negozi di specialità siciliane e di souvenir dove si poteva trovare, tra le altre cose, le essenze profumate al gelsomino e ai fiori della zagara.
Per quanto però fossi passato e ripassato da quel corso, non mi ero mai accorto di un portone, non grande, scuro e un po’ rovinato, di solito chiuso, con una piccola targa gialla che diceva” Chiesa SS Salvatore 1072”.
Una volta però mi fermai perché passando avevo sentito della musica e le voci di un coro bellissimo provenire dall’interno: mi sembrava il Gloria della messa in Si minore di Bach…. ma non era Bach, ne ero sicuro.
Così decisi di entrare, aprii il portone, scostai una pesante tenda rossa e mi ritrovai in un luogo stupendo, un Alef avrebbe detto Borges: era una chiesa avente per pianta un dodecagono inscritto in un’ellissi, ricca di marmi policromi, zeppa di putti e angioletti e con una cupola dove era affrescato un paradiso anch’esso pieno di angeli.
La musica cessò istantaneamente, quasi sorpresa e disturbata dalla mia intrusione, poi riprese ma stranamente senza coro.
Da fuori mi era sembrata un’orchestra, ne ero sicuro, invece c’era solo un uomo all’organo che suonava o mi così pareva.
Mi sedetti comunque ad ascoltare ormai perso e rapito tra le note e le immagini degli affreschi dove tutti gli angeli sembravano guardarmi, fino a quando anche la musica dell’organo cessò completamente e il silenzio avvolse ogni cosa.
Mi avvicinai al maestro per fargli i complimenti e gli chiesi di chi fosse quella composizione.
“E’ mia” mi rispose. “No, non è Bach, è un divertimento che mi è venuto di suonare, così, d’istinto”.
“Bravissimo Maestro! Mi è sembrato di sentire addirittura un’orchestra e un coro” aggiunsi.
Il maestro, con occhi azzurri da acquamarina e fini capelli tra il bianco e l’oro mi rispose: “Sa, questi vecchi edifici di culto sono cresciuti a strati, con stili e destinazioni diverse nei secoli. Qui hanno messo mano i Normanni, gli Aragonesi, gli Spagnoli, i Borboni e altri ancora. Un bombardamento ha distrutto tutto e quindi è stato ancora restaurato. Ha passato i secoli e a volte presenta un’acustica strana, con effetti sorprendenti, singolari, irripetibili”.
Mi disse tutto questo guardandomi con un sorriso benevolo e ammiccante e poi mi sembrò anche che mi strizzasse l’occhio, ma forse fu solo una mia impressione.
Mi complimentai ancora, lo ringraziai e mi avviai per uscire, ma, appena mi trovai dietro la tenda rossa, prima dell’uscita dal pesante portone, sentii un leggero tramestio, un frullare di ali d’angelo e l’orchestra ricominciò a suonare di nuovo accompagnata dal coro.
Non potevo muovermi e rimasi lì tra la tenda e il portone rapito e affascinato da quella musica “angelica”.
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