Racconto di Maurizio Fierro
(Prima pubblicazione – 12 giugno 2020)
Alla vigilia di Natale, l’eccentrico Ed Wood Junior, colui che sarà definito il peggior regista di Hollywood, riflette su un racconto di un autore sconosciuto apparso sul “New Yorker”.
West Hollywood, Los Angeles, 24 dicembre 1949
Ed aprì il cassetto del vecchio comò e la vide. L’Ortgies 7,65 semiautomatica riposava fra una serie di fazzoletti ripiegati con ordine e alcune palline di lavanda di un color viola pallido. L’impugnò, per alcuni secondi la tenne in mano, come a soppesarla, poi la depose dove l’aveva trovata e tornò a sedersi sulla poltrona di velluto verde.
Rimase lì, e per alcuni minuti lasciò vagare lo sguardo per la stanza, senza riuscire a pensare a niente di preciso. Poi di colpo l’inquietudine tornò a pesargli sulle spalle, e in men che non si dica si trovò davanti allo specchio a figura intera della camera da letto. Di fronte a lui c’era un tizio dalla corporatura esile, di altezza media, in mutande e reggiseno di pizzo rosa.
«La trovo elegante, questa mise, che ne dici?»
Si ricordò di quando sua madre Lillian lo abbigliava come la femminuccia che avrebbe tanto desiderato, ma che non riuscì mai ad avere. Da tempo Ed aveva superato l’imbarazzo che gli procurava acquistare quelle confezioni combinate di mutandine e reggiseno, e al negozio di Debbie Richards, sulla Mulholland Drive, riusciva perfino a irretire le commesse facendosi mostrare tutte le novità provenienti dall’Europa, e monopolizzando la loro attenzione più di una contessa dell’Ancien Regime che si fosse materializzata dalla vecchia Debbie con un codazzo di eunuchi.
«Sì, forse avrei potuto farlo durare di più quel film, lo ammetto», è che poi mi sembrava di tirarla un po’ troppo per le lunghe, con la trama».
Con fare istrionico, mimò un uomo che estrae una rivoltella dal cinturone, e ripensò ai venti minuti del cortometraggio girato in pochi giorni, di cui era stato produttore, sceneggiatore, regista e attore. Nelle pause delle riprese, aveva cucinato gustose ciambelle impanate per tutta la troupe, anche se considerare troupe sei comparse conosciute in un fast food e convinte a recitare in un film che, a suo dire, sarebbe entrato nella storia del Cinema passando dalla porta principale, poteva sembrare un azzardo.
Già, il cinema. La grande passione di Edward “Ed” G. Wood. Fin da ragazzino, quando trascorreva tutti i pomeriggi a guardare film, da solo, nella piccola sala cinematografica del Queens, a New York.
«Non potevo certo imparare a cavalcare in così poco tempo», si giustificò Ed, ravviandosi i capelli, «e poi, i cavalli sono animali così imprevedibili, creano solo grattacapi, altroché».
Ed aveva sempre nutrito un sacro terrore per i cavalli, e questo era un bel problema, se giri un western; senza contare che il budget alla voce “affitto equini” segnava un trattino che si traduceva in “niente cavalli” nel far west, e al diavolo nitriti e impennate da imbizzarrimento acuto e fughe dalle banche col malloppo, tanto, nell’abbozzo di cittadina ricostruita con il cartongesso nella cantina adibita a set cinematografico, di banche, non c’era nemmeno l’ombra.
Pensi davvero che ci sarebbe voluta la colonna sonora? si chiese osservandosi allo specchio, va bene, d’accordo, ho capito, vorrà dire che il prossimo, sarà un film migliore, voglio dire, con la colonna sonora e tutto il resto.
«Certo, una colonna sonora», sussurrò alla figura che ora vedeva vestita con un paio di pantaloni di velluto a coste bianchi, un maglione d’angora di colore azzurro e un paio di pantofole a coniglietto, avete presente, no? sì, quelle con orecchie sul davanti e codini di cotone bianco sul retro. Come una mannequin in mano a una vetrinista ubriaca, Ed adorava cambiarsi più volte al giorno, posseduto di un’urgenza che non riusciva a trattenere.
«Cascasse il mondo se non sarà un successone questa volta», concluse, dandosi una lisciata ai baffi. Poi aprì l’armadio, e dopo qualche esitazione ne estrasse un completo di lino color canna da zucchero che ritenne perfetto per l’indomani, quando sarebbe andato al circo insieme a Tor, e poi, dopo aver recuperato anche Cliff, a mangiare roast beef con pannocchie tostate e birra nel fast food di Olga Ramires, una messicana tutto pepe che aveva passato del tempo in gattabuia per una storia di ricettazione e che li avrebbe accolti come era solita fare: “ecco il trio delle meraviglie”, sì, avrebbe detto così, e nessuno poteva biasimarla, Olga, perché vedere quei tre era proprio uno spasso, come se un’appendice dello spettacolo circense fosse proseguita in quel piccolo fast food a esclusivo beneficio degli avventori, che avevano il privilegio di condividere il fumo e la puzza di fritto insieme a un gigante, un wrestler e un imbonitore.
Questo mi pare appropriato, pensò Ed osservando il completo di lino, piacerà sicuramente allo svedese.
Lo svedese era Tor Johnson, un suo vicino di casa. Si erano conosciuti alla lavanderia del quartiere e si erano piaciuti da subito. Tor aveva abbandonato il catch, e ora trascorreva le giornate costruendo presepi di legno e guardando vecchi film in televisione. Le domeniche, invece, le passava ad ascoltare i progetti cinematografici di Ed, e, da qualche mese, ai due si era aggiunto Cliff, un gigante che si esibiva nel side-show del Barnes Circus, dove Ed e Tor si recavano a seguire l’ultimo spettacolo programmato nel weekend. Poi, seduti nel locale di Olga Ramires, i volti di Tor e Cliff diventavano il cinema dove Ed proiettava i film dei suoi sogni irrealizzati.
Ed osservò il completo adagiato sul letto in ottone, con rapidi gesti si tolse i vestiti, si infilò con la destrezza di un modello l’abito, e si sorprese a contemplare la figura che gli rifletteva lo specchio: «Gesù, amico, cos’è, cos’è che ti rende così affascinante?»
Volteggiando su se stesso, pensò al figurone che avrebbe fatto con i suoi amici, e si disse anche che quel completo sarebbe stato perfetto per il protagonista del suo prossimo film. Ci stava lavorando da tempo, aveva trovato il titolo e anche una parte per i suoi due amici, e non vedeva l’ora di discuterne con loro. Ma di colpo quel pensiero lo irrigidì, come se un’invisibile ondata di gelo lo avesse investito raffreddandolo fino alla radice dei capelli.
«Ehi, non mi chiederanno mica dettagli sulla trama, spero», disse con l’angoscia di uno scolaro che si è dimenticato di studiare la poesia a memoria.
Il protagonista sarà un poliziotto, ecco tutto, pensò, osservandosi con aria smarrita e costringendosi a sorridere.
Nello schema generale del suo lavoro per Ed la trama era solo una scocciatura che si frapponeva fra il suo talento e la luminosa carriera verso cui era inevitabilmente destinato.
Tuttavia, di una cosa era certo: non sarebbe stato un western.
Dirò loro che sarà un thriller, sì, “Il sole sta tramontando”, un ottimo titolo, per un thriller.
Quindi, con la teatralità di una vecchia gloria da film muto, trotterellò verso la piccola cucina, aprì il frigorifero e prese una bottiglia di latte, versandone il contenuto in una grande tazza rosa adornata da un numero imprecisato di orsacchiotti neri. Ed bevve il latte a sorsi lenti, poi afferrò il “New Yorker” ripiegato sul tavolo e lo sfogliò, fino ad arrivare alla pagina dell’inserto, dove trovò il racconto con quel titolo bizzarro.
Dopo averlo letto, alcuni giorni prima, per un tempo imprecisato era rimasto seduto, immobile, incantato come un bambino davanti agli animaletti appesi sopra la culla. Lo aveva riletto altre due volte e la malia che proveniva da quelle parole continuò ad avvolgerlo a lungo, come una soffice coperta di lana ritrovata in un vecchio baule in soffitta.
Forse era stato il dialogo fra Seymour e la bambina, a stregarlo. Un dialogo in codice, storpiando le parole, come può esserlo solo quello fra due bambini. Ma Seymour non era un bambino. Era un reduce di guerra, lui, proprio come Ed. Già: la Marina, Pearl Harbour, e tutti gli incubi che venivano a fargli visita durante la notte.
«Tip tap, tip tap», bisbigliò Ed schioccando medio e pollice della mano destra, «orsù, signori, tutti a bordo: si parte!», poi mosse la mano destra imitando il tipico movimento ondeggiante del mare.
«Tip tap, tip tap, e la nave va, e tanti missili porterà», cantilenò, affiancando a quello ondulatorio della mano destra un movimento deciso della sinistra, in linea retta, a imitare la partenza di un missile.
Finito il conflitto, Ed era riuscito finalmente a riprendere la sua grande passione, cercando di recuperare il tempo perduto con lo stesso entusiasmo che aveva da ragazzo, quando passava intere giornate a girare pellicole in super 8 con la sua Kodak Cine Special, ricevuta in regalo in occasione del suo dodicesimo compleanno.
«E voilà, miss Glenda», disse all’improvviso, «entri pure, è la benvenuta!».
Ed si alzò, attraversò di corsa la stanza e si ripresentò dopo pochi secondi con una vistosa parrucca bionda.
«Oh Glen, che piacere vederla, come sta?»
«Mia cara Glenda, venga, si sieda qui, accanto a me».
«Grazie, amico mio, sapesse quanto mi è mancato, in questi giorni».
«Anche a me è mancata, Glenda. Mi chiedevo, infatti, quando si sarebbe rifatta viva».
Ed rimase per alcuni secondi con in mano la parrucca bionda, cercando di ricordare mentalmente le successive battute. Adorava interpretare personaggi di entrambi i sessi, ma la memoria non era il suo forte, e naturalmente non c’era alcun progetto ben definito a far da cornice a quei dialoghi surreali.
«Gradisce del brandy, Glenda?»
«Mais oui, cher amis».
«Che avete fatto di bello in questi giorni?»
«Sapete, Glen, l’ultima volta vi siete comportato proprio male. Io vi voglio bene, ma non posso sopportare quando vi atteggiate in quel modo».
«Cosa può avervi ferito? Ho forse detto qualcosa che vi ha offeso? Sapete, senza di voi ho passato giorni veramente tristi. Tutto, qui, sembra vuoto senza la vostra presenza».
All’improvviso, con un movimento brusco, Ed si sfilò la parrucca, la gettò a terra e si sollevò di scatto con fare stizzito.
«Noo! Non va, non va bene!».
In piedi, con lo sguardo torvo e le braccia sui fianchi, Ed si rivolse al divano con fare minaccioso.
«Quante volte vi ho detto che dovete essere più naturali, nella recitazione?»
«Glen», proseguì, «non devi far apparire l’assenza di Glenda come se fosse la fine del mondo: sei, oppure no, un militare in congedo? Via, più fierezza, meno romanticismo!».
«E tu, Glenda, devi apparire più offesa, ti sei forse dimenticata le frasi che hanno accompagnato l’ultimo commiato di Glen?»
«Niente, non c’è verso di fargliela capire a quei due», osservò Ed sconsolato, dopo essersi lasciato ricadere pesantemente sul divano. Per un po’ rimase lì, con lo sguardo perso nel vuoto. Infine si addormentò, e le successive ore le dedicò a uno dei suoi amati e prolungati pisolini.
Eppure, un contatto c’è stato, pensò, riprendendo in mano il “New Yorker”. Il racconto di quell’autore sconosciuto, J.D. Salinger, continuava a occupare i suoi pensieri, e quel dialogo fra il protagonista e la bambina sembrava volergli suggerire qualcosa.
Sybil”, rifletté, lei ha percepito la natura segreta di Seymour, con quel misterioso istinto che solo i bambini possiedono. Ha oltrepassato il velo del disincanto, si è trovata a tu per tu con il dolore. E poi, certo, la storia dei pescibanana, il loro dialogo in codice… solo se lo si è rimasti un po’, bambini dentro, si può dialogare in codice con una bambina”.
Il suicidio di Seymour nel finale del racconto aveva sconvolto Ed. Per attuarlo, Seymour aveva utilizzato un’Ortgies, proprio come quella che possedeva Ed, e per giorni quel gesto era stato per lui una perniciosa attrazione. I fantasmi del periodo trascorso in Marina erano tornati a fargli visita, accompagnati da quel senso di opprimente amarezza che accompagnava le prime delusioni della sua ancor giovane carriera di regista.
«E’ un giorno ideale per i pescibanana?» si interrogò.
Dopodiché si alzò, si diresse con passo deciso in camera, aprì il cassetto del comò e ritrovò l’Ortgies dove l’aveva lasciata. Ed l’accarezzò, quasi volesse stabilire un contatto e, come in un tempo sospeso, rimase in piedi, con la semiautomatica adagiata nella mano destra, come un uccellino pronto a spiccare un volo. Infine la depose, tornò nella sala e si lasciò sprofondare sul divano. Con gli occhi chiusi, assaporò il rumore del silenzio intorno a sé e per un po’ non ebbe idea del tempo che trascorreva.
Infine, come attraversato da una scossa elettrica, si alzò di scatto e uscì a passo di marcia dalla sala.
Quando vi rientrò, la parrucca bionda che indossava gli si era piegata di lato e Ed Wood Junior assomigliava a una maldestra comparsa di B movie.
«Ebbene sì, io vi amo, Glen», disse.
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