Racconto di Lorenzo Barbieri

(Sesta pubblicazione – 1 dicembre 2020)

 

 

 

I due schieramenti si erano attestati sulle proprie posizioni. Da una parte c’erano gli assalitori. Un esercito eterogeneo di ribelli scozzesi, che avevano preso possesso di una collina in formazione compatta. Erano armati di lunghe aste, spade, archi e   frecce e molti avevano forconi e falci. Non erano soldati regolari, ma solo gente di ceti sociali diversi, mal vestiti, molti erano addirittura scalzi, di battaglie non ne sapevano niente. Erano però accomunati da un unico ideale. Aspiravano e lottavano per conquistare la libertà ed erano disposti a morire in suo nome. Al comando di questa eterogenea massa di uomini e donne si era posta Megan MacIntyre, vedova del capo clan ucciso nella battaglia sulle colline dove i rivoltosi avevano subito una pesante sconfitta. Megan era intenzionata a rivalersi contro il potere inglese. Aveva radunato un piccolo esercito di contadini e gente comune per rimpiazzare i caduti e con loro vendicare la sconfitta subita. Sapeva che in uno scontro frontale non aveva nessuna speranza di vincere contro cavalieri e soldati inglesi addestrati alla guerra, doveva escogitare un piano diverso.

Di fronte, oltre il fiume che attraversava la piccola valle, si ergeva maestoso il castello di Hogghins. Il baluardo inglese era come un monolite, compatto, lugubre, eretto su una rupe rocciosa. Le torri minacciose potevano dominare, con lo sguardo, tutta la valle e le colline circostanti. Era una costruzione possente, il fiume la proteggeva dalla pianura e su quello sperone di roccia nessuno si poteva avvicinare. Su una delle torri il vessillo del conte garriva al vento, superbo e altero come il padrone del castello.  Si manteneva teso sotto l’impeto del vento, quasi a voler avvertire i nemici. Era il monito che esercitava su tutti, era il simbolo del potere, della forza, niente e nessuno poteva sperare di strappare quel pezzo di stoffa colorato da quella torre. Il drago che vi era raffigurato, seguendo il vento prendeva vita, ondeggiava sinuoso, sembrava voler sputare fuoco da un momento all’altro. Le truppe inglesi, nella loro superbia, erano raggruppate nel castello ed erano pronte ad affrontare quella banda di straccioni dall’altra parte del fiume. Il comandante osservava dall’alto della torre i movimenti dei ribelli sulla collina. Pensava che da un momento all’altro si sarebbero buttati contro le difese del castello per tentare di prenderlo, sorrideva, “stolti” pensava. Come abitudine degli uomini di quelle terre si sarebbero lanciati all’attacco in modo scriteriato.

“Come possono sperare di conquistare questo castello”, era impensabile.

Nemmeno con un lungo assedio era stato possibile conquistarlo, ci avevano già provato eserciti più numerosi e agguerriti.

Era trascorsa tutta la mattinata ma gli assedianti non si erano mossi di un passo, anzi, si erano messi a mangiare tranquillamente sul prato volgendo anche le spalle agli inglesi. Sembravano allegri e in armonia e non una massa di ribelli desiderosa di andare a battersi. Un simile affronto non era stato accolto con piacere dal comandante inglese dell’esercito che aveva sotto il suo comando.

Come osavano quei bifolchi deridere il potere inglese con quel atteggiamento derisorio. Cosa credevano di fare, volevano impressionarlo con una dimostrazione di coraggio? Si sarebbero pentiti di questo atteggiamento, se loro non venivano ad assalire il castello sarebbero andati loro a disperdere quella marmaglia.

“Capitano”, urlò dalla torre verso il centro del cortile dove i soldati erano in attesa.

“Comandi sir Corwell”

“Faccia preparare la cavalleria, andiamo a prendere quegli scalmanati. Sono stufo di aspettare i loro comodi, ora stanno addirittura mangiando e noi siamo bloccati qua. Appena la cavalleria sarà uscita, la truppa a piedi seguirà a distanza di cinquanta passi”.

“Agli ordini, pronti entro cinque minuti”.

“Bene!”

Finito di dare gli ordini scese dalla torre e si accinse a prepararsi. Il suo scudiero lo aiutò ad indossare la sua armatura, i pochi raggi di sole che uscivano dalle nubi la facevano risplendere di una luce sinistra, tanto era lucida.

Il ponte levatoio si abbassò e iniziò la sfilata dei cavalieri, in doppia fila con la lunga lancia nella destra e la spada da combattimento al fianco, erano imponenti e incutevano paura a chi doveva affrontarli. Non appena tutti furono usciti si allargarono in formazione e si diressero verso il ponte che univa le due sponde del fiume, a distanza seguivano le truppe appiedate. Ogni soldato aveva il grande scudo appuntito nella parte inferiore, si poteva conficcare nel terreno per proteggere il corpo e avere le mani libere mentre combattevano nei duelli ravvicinati. Gli scozzesi, dall’altra parte, sembrò che non si fossero accorti di nulla, erano sempre lassù senza muoversi, gli inglesi avanzavano al passo con calma e sicurezza. Arrivati all’imbocco del ponte, come per magia, dall’erba e dagli alberi intorno uscirono gruppi d’uomini armati di lunghe aste che cominciarono a colpire i cavalli e i cavalieri. Nello stretto spazio del ponte la potenza della cavalleria era nulla, non c’era margine per manovrare, uno per volta cadevano sotto i colpi degli scozzesi. Ci fu un momento di caos, imbrigliati nelle pesanti armature non poterono opporre valida resistenza, cadevano e riempirono il ponte di cadaveri. La fanteria che seguiva, vista la situazione, cercò di raggiungere il ponte guadando il fiume a piedi. Poco dopo, però, la maggior parte dei soldati era impantanata con il fango fino alle ginocchia. Fu allora che un nutrito gruppo di donne armate di arco e frecce cominciò a bersagliare i soldati con un nugolo di dardi che ne fecero strage. Gli insorti che ancora erano rimasti sulla collina si erano precipitati a valle e si apprestavano ad affrontarli nel corpo a corpo. Nuvole di frecce si abbattevano sugli inglesi che erano nell’acqua. Quella che doveva essere una battaglia di poca importanza per sir Corwell, si stava rivelando una trappola mortale. Soldati esperti come le truppe inglesi, veterani di tante vittorie, cadevano come mosche senza nemmeno impegnare il nemico in un corpo a corpo. Senza correre rischi inutili quegli straccioni, come li aveva definiti il comandante, erano riusciti a imbrigliare l’esercito ritenuto il migliore che si conoscesse.

Il capo tentò di evitare lo scontro e cercò di rifugiarsi fra le mura sicure e inviolabili del castello ma un drappello di rivoltosi, che lo aveva preceduto, appena si avvicinò con la scorta riuscì a catturarli tutti. Condotto davanti a Megan, grande fu lo smacco per l’altero comandante, nel trovarsi davanti una donna. Il suo esercito, il suo onore, tutta la spocchia e la nota superbia, furono ridotte al silenzio. In un ultimo barlume di dignità cercò di far valere il suo rango di nobile d’Inghilterra ma gli fu spiegato che era inutile, se avevano scelto di ribellarsi era proprio quello il motivo. Il popolo di Scozia era stanco di questi soprusi e di quest’oppressione. I pochi superstiti rimasti furono catturati e condotti nel castello, ormai senza più difese. Dopo averli spogliati d’ogni armatura e vestimenta, furono legati e lasciati nel cortile, il comandante invece fu messo nella gabbia nudo ed esposto sull’esterno del castello a monito di chi li avrebbe trovati. Dopo aver preso tutto quello che potevano trasportare, gli insorti si ritirarono e tornarono alle loro case. Contadini, commercianti, servi e tutti gli uomini che erano sotto il giogo inglese tornarono al proprio lavoro. La libertà era stata conquistata. Quando è in gioco la libertà di un popolo intero non c’è esercito che tenga. Megan tornata a casa lasciò il suo ruolo di capo ribelle e tornò alla vita di sempre, ma sapeva che questa pace appena conquistata non sarebbe durata a lungo. Gli invasori sarebbero tornati e lei, ancora una volta doveva imbracciare la spada per difendere la sua terra.