Racconto di Angelo Reccagni

(Quinta pubblicazione)

Illustrazione di Angelo Reccagni

 

 

“Io non mangio per vivere ma vivo per mangiare”.

 

Questa frase potrebbe essere il motto di Arturo.

La fame, la brama di riempire lo stomaco, il desiderio di alimentarsi lo manifestò sin dalla nascita.

Il latte materno non gli bastava mai, terminata la poppata ritornava a piangere e non voleva staccasi dal seno. Bruciò i tempi dello svezzamento imparando prestissimo a mangiare autonomamente e soprattutto a mangiare tanto. Arturo crescendo e, soprattutto, mangiando non divenne certo un bambino filiforme anzi era decisamente in sovrappeso, forse non era obeso ma grasso certamente sì! Incominciò ad avere problemi per via della sua costituzione in terza elementare, quando i suoi compagni di classe lo soprannominarono

 “ TREBÙ ’’.

Lui, non riusciva a capire il senso di quel soprannome che gli era stato affibbiato e decise di chiedere ad un compagno, a suo avviso uno dei più “umani”, delle spiegazioni.

Il compagno “umano”, ridendogli in faccia, iniziò a recitare la filastrocca che li aveva ispirati per quel soprannome, faceva così:

 

Ciccio bombolo cannoniere

Con TRE Buchi nel sedere

Con TRE Buchi nella pancia

Ciccio bombolo va in Francia…

Ecco!  Era un diminutivo di 

“CICCIO BOMBOLO”!!!

 

Passò qualche annetto e Arturo alias “TREBÙ” si ritrovò’ alle medie. A quel soprannome, alla fine, si era abituato e non ci faceva caso più di tanto. A scuola non andava benissimo ma, comunque, se la cavava mantenendosi sempre sulla sufficienza. Non praticava nessuno sport e continuava ad essere decisamente in sovrappeso, il cibo era sempre al centro dei suoi interessi.

Alle medie aveva un insegnante di lettere molto carismatico, un tipo che sapeva affascinare gli alunni quando leggeva racconti, declamava poesie o spiegava fatti storici, inoltre era anche il cronista sportivo del giornale cittadino.

Scriveva, soprattutto, di calcio e al lunedì fra l’entusiasmo degli alunni, dedicava l’ora di conversazione alle partite di calcio della domenica precedente. L’ora di conversazione era animata: i ragazzi intervenivano con enfasi e commentavano i vari goal, discutevano sulle azioni controverse.  sostenendo l’una o l’altra squadra.

Arturo nell’ora di conversazione calcistica non interveniva mai, non era interessato al calcio e non avendo niente da dire se ne stava zitto in disparte.  Questo suo estraniarsi da un argomento così interessante aveva, con ogni probabilità, infastidito il suo professore. Fu così che un giorno, guardandolo con un certo sarcasmo, di colpo si rivolse a lui dicendogli:

 

«e tu! “PACIA RISOT “, non hai guardato la partita ieri?»

 

Il termine “PACIA RISOT” cioè “mangia risotto”, rendeva bene l’idea delle abbondanti forme di Arturo e suscitò una incontenibile ilarità fra i suoi compagni che da quel giorno smisero di chiamarlo “TREBÙ”, ribattezzandolo “PACIA RISOT”.

 

Finiti i tempi delle scuole, Arturo andò a lavorare in una fabbrica tessile, si trattava di un lavoro manuale ma pulito. Operava tutto il giorno con filati di lana e di cotone, era un lavoro che richiedeva solo di indossare un camice blu sopra i propri vestiti.

In fabbrica la mano d’opera era composta principalmente da donne e fra le varie le colleghe c’era Teresa. Teresa piacque subito ad Arturo, era una bella ragazza, longilinea e molto loquace, cioè l’opposto di Arturo.

Arturo non le staccava mai gli occhi di dosso, rimirava continuamente quei suoi bellissimi occhi azzurri e quei capelli castano chiari, lunghi ed un po’ mossi. Quando Teresa lo guardava, o meglio, quando lei sentendosi insistentemente fissata lo guardava e gli sorrideva, lui era portato a pensare che anche lei nutrisse verso di lui le stesse emozioni. In realtà, quel sorriso, era semplicemente dettato da un sentimento di compatimento e di pena. Arturo, che amava definirsi non grasso ma di costituzione robusta, era fermamente intenzionato a conquistare Teresa, al punto di intraprendere una ferrea dieta ipocalorica, cosa per lui alquanto dolorosa ma alleviata dal pensiero di lei.

Inoltre, per attrarre ancora di più la sua attenzione, iniziò a vestirsi con una certa cura, sotto il suo camice blu, spesso faceva capolino il nodo di una cravatta e quando entrava o usciva dalla ditta, cominciò a sfoggiare un paio di belle giacche ed un elegante soprabito blu scuro.

Fu così, che scoprì che avevano cominciato a chiamarlo “PIPPO”, ancora una volta gli avevano affibbiato un soprannome. La cosa gli dava un certo fastidio, soprattutto per la figura che ci faceva nei confronti di Teresa. Teresa in quei giorni gli sembrava un po’ cambiata, gli era parso che quando si sentiva osservata, lo guardava e gli sorrideva come al solito ma gettava anche uno sguardo di intesa alle sue amiche e tutte si mettevano a ridere.

Perché poi lo chiamassero “PIPPO “, non riusciva a coglierne il senso ed allora lo chiese “confidenzialmente” ad un suo collega di lavoro, il quale trattenendosi con fatica dal ridere gli canticchio un ritornello che faceva più o meno cosi

 

Ma PIPPO, PIPPO non lo sa
che quando passa ride tutta la città

si crede bello
come un Apollo
e saltella come un pollo

ma PIPPO, PIPPO non lo sa
che quando passa ride tutta la città

Si crede bello…


Capì di essere diventato lo zimbello dell’azienda e allora il senso di vergognalo lo portò a licenziarsi. Accadde proprio il giorno in cui Teresa aveva deciso di annunciare ai colleghi le sue imminenti nozze con un certo Giacomo per poi distribuire a tutti dei sacchettini di confetti e uno era anche per lui.

Arturo tornò avidamente ai suoi pasti ipercalorici e si trovò un nuovo impiego. Un lavoro molto duro e pesante, si trattava di una catena di montaggio in una ditta metalmeccanica.

Il Caporeparto era una persona molto sgarbata, pretenziosa e polemica, il ritmo di lavoro frenetico. Ogni turno durava otto ore, con una pausa di trenta minuti per un mangiare boccone e per andare il bagno. Staccarsi dalla catena di montaggio per una pausa fuori programma non era visto di buon occhio. Il lavoro era faticoso e l’età avanzava, presto sarebbero arrivati gli anni per la pensione ma nel frattempo vennero preceduti da brutti disturbi alla vescica. Ciò comportava la necessità di correre in bagno almeno un altro paio di volte oltre alla pausa. Fu inevitabile presentare il certificato medico alla direzione del personale per ottenere un permesso speciale ogni qualvolta lo riteneva opportuno.

Il suo capo, ricevuto l’avviso dalla direzione in merito alle necessita di Arturo, comunicò a tutto il reparto le sue condizioni di salute, chiarendo che solo lui, poteva utilizzare con maggiore frequenza il bagno, perché lui era uno “PISCIALETTO”.

Da quel momento, i colleghi quando parlavano di lui, non lo chiamavano più Arturo ma Arturo Alias … “PISCIALETTO”. 

Arrivò finalmente la pensione, Arturo organizzò le sue giornate decidendo di dedicare il mattino agli acquisti, principalmente mirati alla preparazione del pranzo, al giornale e al bar per il caffè. Abitando in una piccola frazione, per queste sue quotidiane necessità, doveva utilizzare l’auto per raggiungere la vicina città.

Quando in passato andava al lavoro, uscendo al mattino presto e ritornando la sera, trovava il cortile condominiale sempre vuoto e l’ingresso e l’uscita dal suo box non presentavano problemi.

Con la pensione i suoi orari erano cambiati, scopri così che il suo vicino, per abitudine al mattino toglieva la macchina dal box e la lasciava nel cortile tutto il giorno, proprio davanti al suo box, con lo scopo di usarla durante la giornata senza avere la scocciatura di entrare ed uscire dalla rimessa.

Ora quell’auto, peraltro piuttosto ingombrante, gli condizionava fortemente lo spazio di manovra, sia per entrare che per uscire dal box, obbligandolo ad effettuare forzate e ripetute sterzate, cambi di marcia, retromarce e attenzioni varie. Operazioni che gli costavano una certa fatica, anche a causa del suo aumento di peso, conseguenza del rimanere molto tempo in casa e con un frigorifero sempre a disposizione.

Fece in modo di incontrare il vicino e, cortesemente, gli chiese di non parcheggiare nel cortile condominiale, spiegandogli le oggettive difficoltà che gli creava la sua auto davanti al box. L’uomo non gli rispose, lo guardò un po’arrogantemente dall’alto in basso, accennò un sorriso sarcastico e con un’alzata di spalle se ne andò.

Arturo lasciò passare qualche giorno, poi, visto che il vicino continuava a fare i suoi comodi, lo affrontò un’altra volta, questa volta con toni un po’ più seccati. Di nuovo non ottenne risposta, il vicino si limitò ad un vago cenno con il capo, gli girò le spalle e se ne andò.

Nei giorni successivi ebbe modo di capire che il cenno del capo del vicino, non era un cenno di assenso, poiché l’auto era come sempre, sfacciatamente parcheggiata nel cortile davanti al suo box.

Arturo cominciava ad essere nervoso per la situazione, a volte, rientrato a casa, dopo aver messo con difficoltà la sua auto nel box, guardava giù dalla finestra e vedeva che quella stramaledetta macchina sempre lì, davanti al suo box.  Una mattina si affacciò per l’ennesima volta alla finestra, e contemplò, come sempre, l’auto sfrontatamente parcheggiata davanti al suo box e si sentì ribollire il sangue. Comprese che non ce la faceva più, che si era stancato, che era ora di finirla.

 

Capì che era ora che gli portassero un po’ di rispetto!

 

Arturo decise di uscire. Uscì dal box con la sua auto, schiacciò con forza l’acceleratore centrando in pieno il veicolo parcheggiato che si parava davanti all’uscita, poi effettuando una serie di manovre continuò ad urtare il veicolo con lo scopo di toglierlo dall’ingresso del suo box.

Il proprietario della macchina, avvisato dai vicini di quanto stava succedendo, scese in cortile e gli corse incontro minaccioso. Arturo, quando lo vide non esitò, girò l’auto verso di lui, schiacciò l’acceleratore e lo investi in pieno, passando poi con l’auto sopra il suo corpo.

Mentre il vicino, a terra, urlava dal dolore, lui in preda a una crisi nervosa, scambiò il retro con la prima marcia e continuò, ripetutamente, a passare con l’auto sopra quel corpo. Si fermò solo quando il vicino smise di urlare.

Sotto lo sguardo dei vicini impauriti ed ammutoliti, Arturo scese dalla macchina e in un silenzio glaciale, dopo aver guardato con un mezzo sorriso quel corpo esamine a terra, si tolse dalla tasca una barretta di Cioccocok, la scartò con calma, iniziò a masticarla e si avviò tranquillamente verso il suo appartamento. Dicendo fieramente a sé stesso: finalmente un po’ di rispetto.

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