Racconto di Filippo Rigli
(Settima pubblicazione)
Lavoravamo in un cantiere. Non mangiavo coi colleghi durante le pause pranzo, mi accampavo da solo sotto un salice nel giardino aperto di alcune villette a schiera, davanti a una radura brulla con le case in costruzione, cercando refrigerio sotto l’ombra delle fronde. Dovevo farmi violenza per non cadere addormentato, tanto il lavoro mi sfiancava. Vegetavo in una specie di dormiveglia, con la corteccia scontrosa del salice a tenermi sveglio, puntata come un coltello nella schiena. Con gli occhi velati come da una tenda vidi un brulicare di gatti spuntare intorno a me, e avvicinarsi, agili e felpati, con la prudenza predatoria dei felini, ma sempre meno timorosi a mano a mano che si facevano più vicini. Mi ritrovai circondato, e ormai la curiosità mi aveva destato del tutto. Uno di quelli, che si sarebbe potuto dire il capo se quegli animali con l’animo del pirata potessero concepire un capo, mi salì sulle gambe e prese a strofinarci sopra la testa, in un ronzare di fusa. I suoi sodali, tutto intorno, si rotolavano sulla terra nelle macchie di sole e sibilavano miagolii acuti. Il capitano era rosso, massiccio e striato, con gli occhi gialli che balenavano nell’ombra del salice. Interruppe il suo concerto di fusa, alzò la testa e mi parlò con voce calda, piantando i suoi occhi gialli nei miei. Sono felice che tu sia arrivato, mi disse, ti stavamo aspettando. Rimasi stupito delle sue parole. Perché mai mi aspettavate, gli chiesi. Gli altri gatti si erano ammutoliti, come assorti per carpire il nostro dialogo. Ti aspettavamo da una vita e anche da prima, disse quello, da generazioni. Ti aspettava mio padre e suo padre prima di lui, perché tu sei l’Eletto. Si leccò una zampa e se la passò sul muso, come per asciugarsi le lacrime della commozione. Lo guardavo senza capire, e lui comprese la mia perplessità. Io sono il più anziano della colonia, mi disse, e avevo quasi perso le speranze di vederti, ma ho mantenuto la fede, per me e per tutti loro, e tu finalmente sei arrivato. Guarda che ti sbagli, gli dissi grattandolo piano dietro l’orecchio fino a fargli strizzare gli occhi gialli, io sono solo un manovale, sono venuto dalla provincia, nell’entroterra, in cerca di lavoro, come potrei mai essere il vostro eletto.
Il gatto rosso soffiò e scalciò, e tutti i gatti attorno lo seguirono in un concerto di soffi e fusa e miagolii che mi costrinse a tapparmi le orecchie con le mani, finché quelle bestie non si acquietarono. Sappiamo che sei sceso dalle montagne, disse infine il rosso, perché così dice la leggenda dell’Eletto. E quale sarebbe la missione di questo eletto, gli chiesi, per assecondarlo, e perché la sua storia cominciava a incuriosirmi. Il gatto si mise seduto in una posa solenne, la coda dritta lungo la schiena. I suoi compari fecero altrettanto. La missione dell’eletto è liberare la colonia, disse. Non capii. Non siete forse già liberi, gli chiesi, non vagate per i dintorni senza padroni e senza leggi che non siano quelle dei vostri istinti. Il gatto scosse il capo in segno di diniego, e di nuovo partì la sinfonia di miagolii, acuta e insopportabile. La volete finire, quasi gli urlai, per sovrastare il loro baccano. Quelli tornarono calmi. Perdonaci, o Eletto, disse il rosso, è proprio l’istinto che porta i nostri sfoghi. Ma lascia che ti dica che la tua impressione e falsa, disse. A te pare così perché sei straniero a queste terre, ma noi non siamo liberi, tutt’altro, noi siamo prigionieri, disse, e di colpo si zitti per prendersi a zampate l’orecchio. Poi si ingobbì per stirarsi, e riprese a parlare. Noi siamo schiavi, prigionieri di un triste incantesimo. Un terribile vecchio stregone ci tiene soggiogati, ci avvelena, affoga i nostri piccoli, ci uccide per fare cappelli e fodere degli stivali, e noi non possiamo niente contro di lui, perché la sua magia nera ci tiene soggiogati. Di nuovo si interruppe, e di nuovo i gatti si sciolsero in un pianto, che saliva a spirale oltre le fronde del salice, fino alle poche nuvole pallide. Ero allibito, non sapevo che rispondere a quei gatti che mi parlavano di eletti e incantesimi.
E quindi dovrei liberavi da questo incantesimo, chiesi loro quando terminarono il loro concerto. Alcuni dei gatti nel frattempo mi si erano avvicinati, e ronzando di fusa mi mordicchiavano le gambe e ci strofinavano contro le teste. Su, state buoni, gli dissi carezzandoli. Dì ai tuoi di stare buoni, dissi al capo. Quello non disse niente ai suoi, troppo impegnato nel dialogare con me. L’incantesimo non si può spezzare che con la morte dello stregone, mi disse strizzando gli occhi gialli. Questo, e nient’altro è il compito dell’Eletto, disse. Rimasi sconcertato. Mi scrollai i gatti di dosso. Siete dunque venuti da me a commissionarmi un omicidio gli chiesi. No, rispose il rosso, no, no, fecero in coro i suoi sodali. Non un omicidio, ma la liberazione, disse. Ma si tratta di uno stregone potente, e potente è la sua magia oscura, e c’è un solo modo per ucciderlo. Voltò la testa e soffiò un ordine verso il branco. La folla si aprì per far passare un esemplare piccolo e nero, dal pelo lucido, che si avvicinò regale con una lima arrugginita tra le fauci. È senz’altro una femmina, pensai, quando con la lima in bocca si posizionò accanto al rosso. C’è solo un modo per uccidere lo stregone, disse il rosso, con quest’arma sacra, che solo l’Eletto può brandire. Guardavo i gatti senza sapere cosa rispondere. Poi sentii aprirsi una porta alle mie spalle. Bestiacce, tuonò una voce roca di fumatore incallito. Mi tirai su in piedi e mi voltai. Un vecchio era comparso sulla porta della villetta, mi veniva incontro. Era calvo e annerito dal sole dei campi, la faccia di legno solcata da rughe. I gatti scapparono sparsi in ogni direzione, accalcandosi uno sull’altro con miagolii striduli, correndo a rintanarsi chissà dove. Il vecchio mi si avvicinò. Mi scusi se l’hanno infastidita, mi disse, avrà sete, le porto dell’acqua.
Vedevo qualche gatto che ci spiava, infrattato dietro cumuli di terriccio o macchine edili spente. Il vecchio rientrò in casa e di nuovo ne uscì con una bottiglia di vetro priva di etichette, appannata dal freddo della ghiacciaia. Me la porse e prima di bere un sorso lo fissai con un attimo di esitazione. Quello si accorse del mio lampo di titubanza e scoppiò in una risata. Scommetto che le hanno detto che lei è il loro messia, disse, e le hanno chiesto di uccidermi. Non risposi, tornai a sedermi sotto il salice, il vecchio si sedette accanto a me. Tirò fuori un pacchetto verde dal taschino della camicia azzurro chiaro e si accese una sigaretta senza filtro. Sputò fuori una nuvola di fumo bianco e mi parlò. Lo fanno con ogni estraneo che incontrano, disse. Le avranno certamente mostrato la loro Excalibur, per uccidermi. Rise ancora. Si sono fregati la lametta per le unghie di mia moglie e non c’è stato verso di averla indietro, ha dovuto comprargliene una nuova, povera donna. Gli restituii la bottiglia, lo ringraziai. Il vecchio aspirò la sigaretta fino a bruciarsi le dita, la buttò, sputò fuori il fumo. Il fumo si perse nell’aria. Confucio diceva che gli dei hanno creato i gatti per dare agli uomini il privilegio di carezzare le tigri, disse. Io li nutro e li curo e loro tramano con gli stranieri per farmi fuori, disse, e rise. Bestie infide, disse, predatori; non puoi togliere loro l’istinto omicida. Se fossero più grandi ci divorerebbero, rimarranno per sempre tigri. Il vecchio si alzò in piedi e si stirò. Eppure stravedo per loro, disse. Io lo guardavo senza parlare. Il vecchio rise ancora, la risata risuonò nella spianata. Lei non mi crede, disse, l’hanno proprio incantata. Andò verso la sua casa, guardi, disse, ora le mostro. Entrò e ne uscì con un ampio vassoio di metallo straripante di rigaglie di carne sanguinolenti. Lo posò a terra e chiamò i gatti. Venite piccoli, disse, facendo cenni con le mani grandi da lavoratore. I gatti si affacciarono timidi dai loro nascondigli, vinsero la timidezza, si precipitarono a rotta di collo sul vassoio per attaccarlo, soffiando a stridendo, come belve, per divorare la carne che il vecchio gli aveva portato. Il rosso guidava le danze. Il vecchio tornò a sedermisi accanto e si accese un’altra delle sue sigarette. Me ne offrì una, me l’accese. Fumammo in silenzio, guardando i gatti mangiare. Quando ebbero finito si stiracchiarono e sbadigliarono e si avvicinarono al vecchio in un concerto di fusa. Il vecchio si trovò circondato dai gatti, gli salivano addosso. Grattò la testa del rosso. Vecchio ruffiano infingardo, gli disse, che mi faresti assassinare. Si voltò verso di me. E lei, disse, non li trova adorabili.
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