Racconto di Anna Claudia Amadori

(Prima pubblicazione)

 

Le parole del chirurgo ortopedico continuavano a tormentarmi:

Se torni in palestra rischi di non camminare più, ma vedrai che puoi fare altro.

Altro … parlava bene lui, con il lavoro eccitante e quella foto di donna con bambini attorno che mi sorridevano dalla fotografia sulla sua scrivania.

Altro per me non era un’alternativa. Altro non esisteva e basta: praticavo judo da quando avevo sei anni e, sebbene non fossi così brava da entrare nella squadra nazionale, alle gare me la cavavo ma, soprattutto, quando appoggiavo i piedi sul tatami[1] ero felice. Tra la fine della scuola e quel maledetto infortunio erano passati tanti fallimenti, tanti lavori diversi ma la mia palestra non era mai cambiata, sempre lì, sempre uguale, con lo stesso; maestro e con quasi gli stessi compagni. Anno dopo anno.

L’ortopedico non poteva capire, l’ortopedico vedeva solo quello che tutto il resto del mondo conosceva di me: trentacinque anni, un buco d’appartamento ereditato dalla nonna, due gatti, qualche storia senza importanza, amiche sposate con figli, lavoro precario.

Ogni sera, però, entravo in palestra, mi allacciavo la cintura nera conquistata con impegno e sacrifici. Mi sentivo viva e appagata.

E poi c’erano le gare, le trasferte in Italia e all’ estero, gli stage … dopo l’esame di laurea io e un paio di amici avevamo addirittura fatto il viaggio della vita, in Giappone, per poterci allenare almeno una volta al Kodokan, la casa madre del judo mondiale.

Poi quell’allenamento sbagliato. Ero stanca quella sera. Lui che fa per afferrarmi, io che lo evito, mi blocco un secondo indecisa sul da farsi, poi un rumore sordo, il fiato che si spezza e quel dolore pulsante. Ho detto solo “Ahia!” appoggiandomi a terra e implorando un po’ di ghiaccio.

Ambulanza, visite, stampelle e l’intervento.

Se torni in palestra rischi di non camminare più, ma vedrai che puoi fare altro.  Fu in quel momento che realizzai concretamente che non avevo altro, che per tutta la mia vita le settimane erano scandite dagli orari degli allenamenti, dagli stage, dalle trasferte per le gare.

Non mi feci vedere in palestra per tutto il periodo della fisioterapia. Ogni tanto partecipavo a una cena ma i racconti dei miei compagni mi facevano invidia, tristezza, a volte rabbia. Quando mi chiedevano come andava rispondevo che sarei tornata presto e più forte di prima, ma sapevo di mentire e probabilmente lo sapevano anche loro.

Sicuramente lo sapeva il mio Maestro, perché una sera, qualche settimana dopo la fine della riabilitazione, venne a casa mia e mi propose di fargli da assistente durante i corsi per i bambini. La buttò sul fatto che sua moglie iniziava ad essere gelosa del loro tempo insieme, sul fatto che ai genitori, specialmente dei più piccoli, sarebbe piaciuto molto avere una maestra di sesso femminile e che non c’era nessuno, nel corso dei grandi, più adatto di me per quel ruolo. Mi disse che non me lo aveva chiesto prima anche se ci stava pensando da tempo perché ero troppo impegnata con l’agonismo, ma visto che ero ferma per una pausa forzata e la ripresa avrebbe richiesto tempo potevo dargli una mano. Ero troppo concentrata sul mio dolore per capire che aveva mentito su tutto e lo stava facendo soltanto per me.

Fu così che tornai a piedi scalzi sul tatami. Triste, sconfitta e anche un po’ schifata, perché i bambini puzzano, parlano in continuazione e non stanno mai fermi. Ma il judo è rispetto e disciplina, avevo accettato la richiesta del Maestro e mi impegnavo ad insegnare bene e a nascondere la frustrazione del non poter più praticare come agonista. Il secondo anno di insegnamento Lorenzo si iscrisse al corso: minuto, con una massa di capelli neri ingovernabili, occhi scuri. Mi disse che sembravo sbagliata lì. Poi si sedette sul bordo del tatami con lo sguardo perso in un mondo lontano dal mio disegnando con le mani nell’aria la lettera kappa. Gli chiesi cosa stesse facendo. Mi rispose che la kappa era una lettera bellissima. Lorenzo aveva un disturbo dello spettro autistico. Quando si arrabbiava faceva tremare le pareti, ma quando rideva le faceva tremare ancora di più. Gli altri bambini gli si affezionarono subito e dopo qualche mese smise di rifiutare il contatto fisico e imparò a fare le capovolte e a cadere. Una sera di dicembre, poco prima di Natale, eravamo tutti seduti ad osservare due bimbette che provavano una tecnica. Lorenzo si avvicinò da dietro e mi si sedette in braccio, mi abbracciò e mi diede un bacio sulla guancia, dicendomi “Ti voglio bene maestra”. E da quel momento cambiò tutto. Quello che avevo fatto fino a quel giorno per dovere si era trasformato in qualcosa che amavo fare, ho iniziato a metterci il cuore, la macchina per le trasferte, l’entusiasmo e l’orgoglio. Avevo trovato nell’insegnamento quello spaventoso “altro” che l’ortopedico aveva menzionato dopo l’intervento.

Dal bacio di Lorenzo sono passati quarant’anni.

Vivo in una casa indipendente, ho quattro gatti, amiche sposate con nipoti. Dopo quarant’anni vado ancora nella stessa palestra. Non ho più avuto storie senza importanza perché mi sono ritrovata ad averne due che di importanza ne hanno tantissima: quando il mio Maestro è diventato troppo vecchio ho rilevato la scuola dopo aver studiato e dato infiniti esami e mi sono sposata con un mio allievo del corso adulti principianti, che è poi diventato il mio assistente.

Non abbiamo avuto figli, ma abbiamo perso il conto di quanti bambini abbiamo cresciuto in palestra e di quante vite siamo stati in parte responsabili.

E Lorenzo? Si è laureato in Fisica quantistica e fa il ricercatore all’ università, non ha più tanto tempo per il judo, anche se ogni tanto passa a trovarmi.

Il suo bacio è durato un attimo … ma quello che mi ha dato è stato per sempre.

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