Racconto di Stefania Fabbri

(prima pubblicazione – 8 giugno 2020)

 

È scesa finalmente la notte sulla desolata periferia di questa città, conosciuta per la sua puzza e le sue ceramiche.                                                                                                                      A A Faenza ci sono nata ventiquattro anni fa. E forse è stato il destino a ricondurmici a lavorare.

Il silenzio regna, sull’asfalto umido e ingombro di cartacce. E’ interrotto solo da qualche gridolino eccitato di pollastrelle da nottata. Stanno aspettando di entrare a rifocillarsi nel baraccone dei buffoni e succhiano avide, nicotina alla fragola.

Conversano animatamente. La più sveglia delle due comincia: “Ti ricordi la Giulia? Mi ha detto stamani, che alla fine ci è uscita con il ragazzo dagli occhi di ghiaccio che le ha chiesto l’amicizia su Faccialibro. Bè è davvero caruccio, ma dal vivo è così basso! A lei proprio non piacciono i tappi! Però sono convinta ci abbia fatto lo stesso qualcosa… E tu cara, stai uscendo con qualcuno? Non la vorrai mica usare solo per orinare la patatina!” ridacchia, la sgualdrina.

L’altra sentendosi provocata, quasi offesa, urtata dal senso d’inferiorità, subito ribatte ammiccando: “Ma certo che no! Per chi mi hai presa, sorella?”

E finalmente, è soddisfatta la perenne ricerca del consenso di cui necessita come aria la mia generazione e si manifesta con un: “Wow, che storia! Bella lì, è così che ti voglio sorella! Ihihih…”  Intanto, si avvicinano i predatori su scooter truccati. Sgassano e impennano per sentirsi un po’ più grandi. Hanno già adocchiato la pollastrella da sbatacchiarsi.

“Eccolo! È lui! Che te ne pare socia, non è un vero fIgo?” Invece l’altra, l’intenditrice, non è proprio convinta. Storce il naso, ci pensa un poco e poi sentenzia: “Ehm, avrà un bel culetto, ma guardalo, è ancora uno sbarbatello! La scelta poi è tua eh, sia chiaro!” La pollastra ci ripensa e ad un tratto s’illumina. Ma certo! Come farebbe se non ci fossero le amiche, sempre così attente e sincere?

È calato il sipario sulle fabbriche grigio malinconia, hanno inquinato anche oggi un po’ l’aria… Da queste parti la notte, tutto è morto, se si esclude il baraccone dei buffoni. Lì pullula la vita, se così la si può chiamare.

Io sono all’interno del baraccone, ma dall’altra parte, dove tutto è diverso, dove tutto è costrizione, dov’è tutta un’altra storia.

Non faccio che ascoltare i buffoni, le loro imposizioni, non faccio che ubbidire da millecinquecento giorni o giù di lì.

Le loro camicie, i loro divieti, il loro arrivismo. Che schifo. Continuo a friggere patatine, ad aprire incarti e a ficcarcele dentro. Continuo a sudare, continuo ad emaciarmi, nella mia postazione nell’angolo.  Rabboccare una bibita, poi un’altra, poggiare una fetta di carne sulla griglia, dieci, venti, centinaia. Un sorriso qua e un grazie di là. “Più veloci cassieri! Più veloci!” tuona il buffone di turno.

Predatori e pollastre aspettano e guaiscono dall’altra parte del bancone. Sembra non si sfamino da una settimana. I più ganzi stanno finendo le bestemmie per farsi notare.

Incontro i loro sguardi insistenti che sembrano dirmi “miserabile che sei, sbrigati, dannazione!” pensano non me ne accorga, che ci arrivi un attimo dopo.

Non mi resta che cercare di capirli. Il loro mondo mi ha spaventata qualche volta, ma perlopiù semplicemente mi sconcerta. Forse è solamente questione d’abitudine. La loro superficialità, il loro universo mojito-and-disco, intriso di apparenza e cose fatte così per fare. Ancora non mi ci sono abituata e forse mai lo farò.

Gemono là in sala, belano e addentano sfiziosità dai loro vassoi, mentre continuo a sanguinare e a rimestare sale e patate.

Ecco. Si avvicina il buffone. Percepisco i suoi passi felpati fermarsi dietro di me. Sento il suo fiato sul collo e mi sovrasta l’ampiezza del suo torace.

Ripete il solito rosario malato e senza tempo: “devi tenere il pollice più spostato verso il centro, non sai quante patate ci stai facendo sprecare! Perciò sposta quel maledetto pollice, devi farlo!” Naturalmente obbedisco. Da millecinquecento giorni non faccio che obbedire.

Passa avanti a tartassare un altro.

Da queste parti si muore lentamente e al caldo, fra l’odore del topping al cioccolato, la mela e la cannella. La salvezza è là fuori. L’asfalto illuminato dalla grande insegna gialla è la via per la fuga. Mi tolgo il grembiule e di soppiatto, rapida e scaltra come un sorcio, mi avvicino alla torretta delle bibite. Succhio avida un’aranciata, neanche fosse nettare di vita.

Finalmente guardo fuori la notte, le stelle, i riflettori e le macchine che sfrecciano insieme a qualche lampeggiante blu, dall’altra parte della radura. Ormai pelle e ossa le spio da una finestrella laterale, una feritoia.

Che subdola tentazione! Potessi fuggire, acquattarmi e sgattaiolare fino alla radura. Potessi giungere alla strada. Potessi… ma non posso.

Qui si produce in serie ed io sono solo un elemento della catena di montaggio con le mani veloci, si accorgerebbero subito della mia assenza.

Pazienza ci ho provato.

I predatori dell’ultima ora, si avviano verso l’uscita sazi, è tempo d’iniziare la mattanza del sabato sera con la pollastra prescelta. Dopotutto sono in giro per quello, sono al mondo per quello.

Rimango ogni minuto più sola. Mi sporgo dal mio nascondiglio, vedo i tavoli pieni di briciole e sporchi di frappè colato, i divanetti modellati dall’assenza di chi ha mangiato ed è già andato via.  È chiaro. È tempo di violentare quel che resta di questa dannata umanità.

Anch’io d’altronde, patirò ancora per poco. A breve tornerò libera e questa libertà è scandita dal bip del timbratore di cartellini e dalla scritta “uscita”.

Spero di avere imparato dalla sofferenza. Spero di essere cresciuta nel frattempo. Spero di non finire da quella parte della strada, quella dei buffoni, dei predatori e delle pollastre. Né stasera, né mai.

Io me ne vado. Mi auguro sia una notte d’amore e di speranza, ce ne sono state fin troppe di noia e di dolore. È tempo di evolversi e d’incamminarsi. Tutto ha un senso.

Immaginavo che un giorno avrei ringraziato il baraccone dei buffoni e i loro schiaffi morali.

Ho imparato così, a calcinculo, quale strada seguire.