Racconto di Giuseppe Joe Bonato
(Prima pubblicazione – 21 gennaio 2021)
“Addio amico venuto dal passato per un momento appena
addio giorni andati in un soffio, amici mai più incontrati”
(F.Guccini: <Cencio> dall’album QUELLO CHE NON… del 1990)
A volte, nei momenti di pausa in questa vita frenetica, succede di tornare col pensiero all’indietro ricordando ragazzi di un tempo perduto e che non abbiamo più rivisto.
Sono amici lontani con i quali abbiamo condiviso un pur breve periodo di vita e il cui ricordo è rimasto fissato sulla pellicola della memoria in ognuno in maniera indelebile.
Ebbene, più gli anni corrono, più frequenti sono questi flashback della mente che riaprono nostalgicamente lo speciale d’archivio storico della nostra giovinezza…
Fortini era chiamato per cognome da noi suoi amici, per distinguerlo dagli omonimi ed io l’avevo conosciuto in seconda media alle scuole Bassani a metà degli anni Sessanta; ricordo che era d’origine toscana ed aveva una sorella più giovane di lui.
Non conosco il motivo che aveva portato la sua famiglia a Thiene, anche se posso immaginare fosse il lavoro di suo padre. Fortini era un ragazzo vivace, di statura bassa e con il quale si andava subito d’accordo. Abitava in centro, in Via Colleoni, verso l’incrocio del Cristo e, grazie al suo buon carattere, si era ben integrato nell’ambiente cittadino, frequentando il patronato della Sede del Duomo dove giocava pure come ala destra nell’Ariston, squadra di calcio rivale della mia Audace di San Sebastiano. In quel periodo la cosa principale per me era giocare a pallone con l’epilogo della partita alla domenica mattina, mentre durante la settimana attendevo con ansia la rassegna dei film del grandioso Tyrone Power oppure della bellissima Greta Garbo; insomma ad essere sinceri, ero distratto da altri interessi e non studiavo molto. Di Fortini mi aveva colpito in particolare quel suo modo di fare perché, nonostante io a scuola non fossi una cima e lui uno dei migliori della classe, non possedeva quell’aria da secchione di qualche altro compagno che metteva a disagio, anzi, spesso mi aiutava nei compiti senza farmi pesare la sua bravura. Ecco, forse è stato questo suo appoggio psicologico unito all’abilità del professor Cervelli nel farmi apprezzare finalmente la matematica, a darmi modo d’affrontare lo studio in maniera positiva e l’anno successivo, la terza media, senza particolari patemi d’animo, concludendo gli esami con un buon risultato finale.
Oggi sono qui proprio a scrivere di Fortini, compagno di classe che ha lasciato una traccia nella mia singola storia e dell’ultimo nostro incontro che capimmo entrambi essere un addio…
Quel pomeriggio d’estate, come di consueto, stavo sul campo di calcio dell’Audace giocando con i compagni del mio quartiere la solita partita d’allenamento in preparazione del torneo estivo dedicato a Livio Gemmo, quando arrivò lui in bicicletta tutto trafelato.
Già da tempo egli era a conoscenza che suo padre avrebbe dovuto trasferirsi per lavoro in altra sede, ma una data certa non gli era mai stata prospettata.
Ora, conclusi gli esami scolastici, suo padre aveva accelerato i tempi per il trasloco che era diventato imminente e così, da un giorno all’altro, Fortini si era trovato spiazzato.
La notizia della cosa era caduta per lui come una grossa tegola mettendo a dura prova i suoi sentimenti d’adolescente costretto in breve ad abbandonare una città in cui aveva messo radici con le amicizie fatte a scuola e sul campo di calcio, per trasferirsi ad una nuova realtà del tutto ignota.
Ricordo bene quando attirò la mia attenzione entrando direttamente a centrocampo ed io smisi all’istante di correre andandogli incontro; aveva fretta ed era visibilmente in ansia perché molti erano i ragazzi da salutare.
Gli chiesi cosa fosse successo, vedendolo con gli occhi lucidi.
Abbozzando un leggero sorriso affermò che il giorno seguente sarebbe partito per Firenze ed era giunto lì apposta per salutarmi.
Ci stringemmo la mano abbracciandoci istintivamente: avevamo entrambi capito che quello era un momento solenne e non un semplice arrivederci.
“Beppe, avverti e saluta per me gli altri amici che non riuscirò a rintracciare…”
Augurandoci ogni bene ci lasciammo sorridenti, ma con uno strano malessere nel cuore.
Poi, lui si girò senza indugiare, attraversò il rettangolo di gioco senza mai più voltarsi ed io ripresi a correre con finta indifferenza, strillando al numero quattro, Mirko, di passarmi la palla.
Con la coda dell’occhio, però, continuai a seguirlo fino a quando inforcò la bici e lo vidi sparire uscendo dalla scena per sempre dietro le mura di cinta del Patronato.
Fu solo allora che mi resi conto di non riuscire più a trattenere le lacrime che ora spontaneamente annacquavano lo specchio dell’anima.
Galoppando a più non posso, in uno sfogo quasi rabbioso e con tutta la forza dirompente che avevo, giunto davanti alla porta avversaria, calciai il pallone in fondo alla rete tra l’entusiasmo dei miei compagni di squadra che non capivano l’esplodere di tutta quella grinta in una banale partita d’allenamento.
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