Racconto di Martino Contento
(Quarta pubblicazione)
«Giannino … ehi, Giannino … Giovà».
Antonio aveva udito distintamente quel richiamo, anzi quel grido rauco, quasi sofferente. Pareva la voce di una donna anziana. Non aveva prestato attenzione. Ovviamente. Il suo nome era Antonio, perché avrebbe dovuto prestare attenzione a quella voce. Eppure si guardò attorno. Cominciava a piovere, il vento si era fatto più violento, le poche persone che camminavano per strada non lo guardavano. Forse, non lo vedevano proprio.
Nell’angolo opposto era fermo un grosso camion. Intorno si accalcavano alcune donne per acquistare cipolle di Tropea e patate della Sila. Sporgendosi dal finestrino un uomo corpulento, in canottiera, noncurante del freddo e della pioggia che incalzava, con un vecchio megafono, incitava ad acquistare la merce accatastata in sacchetti di iuta accatastati alla rinfusa sul cassone.
«Le cipolle, sono belle le cipolle, le cipolle dolci dolci, ve le diamo regalate … le patate, la vera pasta gialla … mica le chiacchiere. Dai che sta piovendo, forza che dobbiamo chiudere … forza signore … le cipolle, le patate … forza signore fate la gioia dei vostri mariti».
Antonio Vacca era arrivato la mattina presto in paese; aveva preso il treno da Napoli che era notte fonda. Il giornale l’aveva inviato a Pozzuoli per un servizio. Qualche giorno prima, il 4 ottobre, si era verificato un terremoto, con epicentro nei pressi della Solfatara. Aveva dettato l’articolo a Stefania, la sua dimafonista. Non aveva aspettato che lei lo rileggesse, si fidava di quella donna. Voleva partire subito. Era vicino al paese dove era nato trent’anni prima e da dove era andato via dopo la morte del padre. Fece un conteggio veloce: erano trascorsi ventisette anni. Voleva assolutamente andarci. Due ore di treno e sarebbe arrivato.
La stazione era deserta a quell’ora. Entrò in un bar, ordinò un cappuccino in cui inzuppò una dolcissima e spugnosa treccia. Aveva un profumo di cose antiche, limone, uova, zucchero, così diverse dagli odori di Milano. Salutò e si avviò verso via Nino Bixio 254. Aveva copiato l’indirizzo da una lettera che tempo fa aveva trovato per caso nello scrittoio di Lucia, sua madre. L’aveva trascritto sulla agendina, non sapeva neppure perché l’avesse fatto. Poi, all’improvviso ieri sera se ne era ricordato, così aveva deciso di andare a vedere se in quella via c’era qualcosa o qualcuno. Cosa o chi non lo sapeva nemmeno lui.
Antonio si calcò il cappello sulla testa, infilò le mani nelle tasche dell’impermeabile e riprese a camminare. Non aveva fatto nemmeno due passi che udì di nuovo la stessa voce.
«Giannino … Giannino».
L’imbonitore in canottiera aveva smesso di presentare in modo pretenzioso, esagerato e chiassoso i suoi prodotti e aiutato da un ragazzo chiudeva le sponde del camion. Lo spettacolo era finito. La pioggia si era fatta insistente e la strada si era svuotata improvvisamente.
Si girò verso la traversa che tagliava in due via Bixio e andava dritta dritta fino al vecchio porto abbandonato dove una volta attraccavano le navi della AFL American Fuels and Lubricants, la ditta dove lavorava nonno Tonino. Così ricordava dai rari racconti della madre. Pochi, ingarbugliai e spesso inconciliabili erano i racconti di Lucia e si interrompevano sempre allo stesso modo.
«Poi tuo padre è morto e ce ne siamo venuti qui a Milano perché la signora Baldovini, santa donna, pace all’anima sua, mi aveva trovato un lavoro. Mi voleva bene la signora Baldovini».
«Accidenti» disse a un certo punto parlando tra sé «Giovanni era il nome di mio padre».
Guardò verso la fine dell’isolato. In fondo, sulla soglia di una casa a piano terra, davanti a una persiana verde un po’ malmessa, vide una vecchietta che agitava animosamente il braccio e continuava a gridare.
«Giovà … ehi Giovanni, Giannino … sono io Graziella, Ziella delle nocelle».
Solo allora capì, senza alcun dubbio, che la donna ce l’aveva proprio con lui. Antonio era impietrito. Non sapeva cosa fare. Non la conosceva. In quel paese nessuno poteva conoscere lui. Aveva tre anni quando era andato via con Lucia, sua madre, e Anna, la sorella più grande. Erano trascorsi trent’anni. Non era più tornato in paese.
Si avvicinò alla vecchina che aveva aperto la porta e agitando le mani lo invitava ad entrare.
«Giannino, vieni entra che sta piovendo, non ti bagnare che con questo vento ti prendi un malanno, figlio mio, vieni siediti, aspetta togliti l’impermeabile, mo’ ti faccio un caffè, ti metto pure una goccia di anice così ti riprendi un poco. Madonna da quanto tempo che non ti vedevo» – si fermò a guardarlo in silenzio – «però sempre uguale sei, non sei cambiato proprio, appena appena un poco più magro».
Antonio si guardò intorno stralunato e spaesato. Non sapeva chi fosse quella donna e cosa volesse da lui. Perché continuava a chiamarlo Giovanni, anzi Giannino. La casa era modesta ma accogliente. Lungo la parete a sinistra dell’ingresso un carrettino malmesso con le ruote a raggi come quelle delle biciclette, sopra quattro cassette di legno con il coperchio formato da una rete di metallo, al centro una vecchissima bilancia con i pesetti di ottone allineati.
La casa, in realtà, era un solo grande camerone, con le volte a botte e una sola porticina più piccola sul lato opposto all’ingresso. I mobili erano vecchi, anzi non erano vecchi, erano antichi. Ecco, antichi, non vecchi; pareva il negozio di un antiquario. In fondo un grande letto in ferro battuto con decori a forma di foglie e accanto un cassettone in noce intarsiato con sopra una lastra di marmo bianchissimo. Sulla parete un’immagine di Gesù Cristo benedicente, incastonata in una grande cornice di legno argentato. Sul tavolo tondo, coperto da una tovaglia di lino con ricami dorati, una coppa enorme di cristallo piena di frutta di cera coloratissima. Vicino al letto c’era una campana di vetro con dentro una statua della Vergine Addolorata, posata su un cavalletto di legno lucido nero come la veste della Madonna. Alle pareti tante cornici di legno con le fotografie, volti austeri e seri di persone appartenute sicuramente ad un’altra epoca. La foto di un uomo in divisa da bersagliere e due baffi a manubrio, dominava le altre, sotto c’era una mensolina con due ceri accesi e un vaso con i garofani.
L’odore fragrante del caffè distolse Antonio dalla fotografia.
«Quello era il padre di mio nonno. Si dice che stava con i bersaglieri di quel senzadio di Cadorna quando fecero crollare il muro di Porta Pia. Mah! Chissà se poi è vero. Il caffè è pronto, ho messo pure un goccio di anisetta, quella buona che la fa una commara mia di campagna. Siediti, per favore Giannino, non fare complimenti. Madonna mia bella, quanto tempo è passato. Tu però sempre uguale sei, non ti sei cambiato proprio» – la donna si zittì improvvisamente, emise un sospiro e guardò verso la campana – «mi pare che questo l’avevo già detto, Madonna mia aiutami, forse che un poco mi sto scimunendo. Gli anni sono quelli che sono Giannino mio. Ma non badare alle cose che dico, prendi il caffè, non lo fare raffreddare».
Antonio era frastornato e confuso da quella donna che non conosceva. Bevve il caffè, era buonissimo, il sapore del liquore era piacevole e pareva sciogliere anche le sue preoccupazioni e il suo imbarazzo. Tuttavia, non riusciva a parlare, guardava la donna senza parlare. Graziella, a un certo punto, si alzò e andò verso il carretto.
«Giannì, questo te lo ricordi. Tu mi aiutavi a spingere il carretto fino alla piazzetta della chiesa, io là mi mettevo, aspettavo che finiva il film al cinema Vittoria per vendere semi, nocelle, ceci e castagne dure. Madò, come ti piacevano le castagne dure. Giannì, allora ti ricordi?».
Antonio era agitato. Non sapeva di cosa la donna stesse parlando, ma allo stesso tempo non voleva darle un dispiacere. Balbetto una risposta.
«No … cioè si, si, mi ricordo, ma sono confuso è passato tanto tempo».
Graziella continuò a illustrare i personaggi raffigurati nelle foto e le gesta e gli avvenimenti di ciascuno. Antonio la guardava quasi senza sentire il suono delle parole. Era proprio vecchia, lo capì dalle mani e dalla pelle del collo, però il viso era liscio e morbido, gli occhi che una volta erano stati di un azzurro intenso, ora erano coperti da un liquido vitreo e da spessi occhiali. Era miope. Portava i capelli raccolti in una crocchia erano bianchissimo e lucidi. Due grossi orecchini antichi di oro impreziositi da due perle, le avevano talmente allungato i lobi delle orecchie che sventolavano al più piccolo movimento della testa come due bandierine.
È miope, pensò Antonio, sicuramente non vede e mi avrà confuso per qualcun altro. Ecco, è proprio così: mi ha scambiato con questo Giannino. Adesso le dico che non sono Giannino, la ringrazio per il caffè, la saluto e me ne vado.
«Ehm, signora, mi scusi …».
«Giannino, che stai dicendo, mi chiami signora? Ziella delle nocelle sono, Madonna mia, allora non sono solo io che mi sto perdendo la memoria? Allora, come ti stavo dicendo, in quella cornice che sta sopra alla credenza sta la fotografia di tua madre Anna, anzi Annina come la chiamava Nino, sì insomma, Antonio tuo padre. Io e Annina eravamo nate lo stesso giorno il 7 aprile 1895: Assunta, la levatrice scappava da una casa all’altra come una pazza. Menomale che alla fine ci siamo accordate» – Ziella rise, tolse gli occhiali e si asciugò gli occhi, poi riprese a parlare – «Dicevano tutti così, si sono messe d’accordo le piccine, infatti prima io sono venuta al mondo e dopo tre ore Annina. Sempre insieme stavamo. A giocare, alle suore, alla sarta. Poi è arrivato tuo padre e non tanto ci vedevamo più perché quello era un poco scorbutico e selvatico. Però era bravo e quando tu te ne sei andato. Insomma quando è successo il fatto brutto. Hai capito, non è vero? Lui ha sofferto assai e nemmanco quando è morta Maria, tua sorella … pace all’anima sua, che si è presa il tifo, ha pianto. Era assai il dolore per il fatto tuo che ormai non teneva più lacrime … pace all’anima sua».
La donna fece il segno della croce, tirò fuori il crocifisso che teneva appeso ad una catenina d’oro e lo baciò tre volte. Non parlava, guardava nel vuoto in silenzio.
Il disagio e la confusione aumentavano, Antonio cominciò a sudare. Non sapeva se dare colpa all’anice o alle parole di Graziella che si era alzata e aveva preso una grossa scatola di latta di colore rosso con sopra una immagine di piazza San Pietro, con su scritto Biscotti Gentilini. Dentro non c’erano biscotti, solo fotografie in bianco e nero, di tutte le forme. La vecchia frugò a lungo.
«Eccola, è questa che ti voglio fare vedere. Questo è Nino, tuo padre, seduta sta tua mamma Annina, dietro c’è Lucia tua moglie e questo sei tu. Madonna mia che eri bello, un fiore».
Antonio cominciava finalmente a capire. Quella donna l’aveva scambiato per suo padre Giovanni. Ma che cosa voleva dire quando ha detto che era successo un fatto brutto. Era imbarazzato, ma la curiosità lo stava divorando. Lucia sua madre gli aveva raccontato che il padre era morto. Un incidente nel deposito dei carburanti, la fabbrica americana della AFL, era caduto dalla gru. Quando, dopo la laurea, era stato assunto come cronista al Corriere aveva provato a cercare negli archivi tracce dell’incidente. Aveva chiesto a sua madre maggiori dettagli che gli facilitassero la ricerca ma lei era stata evasiva e sfuggente. Aveva provato anche con Anna, la sorella, che essendo più grade di lui forse aveva ricordi più vivi. Anche lei però era imprecisa e poi ormai si era trasferita a New York da tanti anni e non veniva più in Italia. Non rispondeva alle sue lettere e durante le rare telefonate se lui provava a tornare sull’argomento interrompeva subito la chiamata.
«Antonio, per cortesia, papà è morto in un incidente sul lavoro. Basta con queste assurde ricerche. Ma poi che cosa diavolo vuoi trovare dopo tutti questi anni. Ciao Antò e salutami tua moglie, scusami ma non mi ricordò mai il suo nome. Ciao».
«Ciao Anna ciao … scusami, ti voglio bene».
Mentre era assorto nei suoi strani pensieri, alzò lo sguardo e vide che Ziella aveva allungato il braccio verso di lui e gli porgeva una busta sgualcita e scolorita dal tempo.
«Giannino, figlio mio, quel giorno che venisti al paese dopo parecchi mesi che te ne eri scappato con quella svergognata della moglie dell’ingegnere americano, mi dicesti che questa la dovevo dare a Lucia. Non mi desti nemmeno il tempo di dire che pure lei se ne era andata. Da allora non è tornata più al paese, nemmanco quando sono morti tuo padre e tua madre. Io stavo presente alla fermata della corriera, alla piazza del mercato, teneva il bambino piccolo in braccio e la bambina per mano. Minguccio, il ragazzo della salumeria, gli portò le valigie. Lei salì, si affacciò al finestrino e disse gridando una frase che me la ricordò ancora … e chi se la scorda. Addio, non mi vedrete più, manco morta. Veramente che da quel giorno non l’ha vista più nessuno al paese. La lettera sta ancora qui. L’ho tenuta dentro al comò per tutto questo tempo. Scusa, puzza di naftalina».
Antonio guardò la busta: non voleva prenderla, aveva paura, cosa poteva contenere, forse una lettera, però pareva troppo gonfia, forse fotografie. Le mani tremavano, cominciò a sudare e si sentiva mancare l’aria. Guardava la vecchia che restava immobile con quel fardello in mano. Graziella posò la busta sul tavolo, si alzò, prese un bicchiere dalla credenza, versò dell’acqua e lo porse ad Antonio.
«Giannì, ti sei fatto pallido, non ti senti bene, beviti un poco di acqua. Ma fammi capire una cosa: ma poi con la signora dove ve ne siete andati? Il marito, l’ingegnere, era uscito pazzo. Al maresciallo dei Carabinieri gli disse che se non vi trovava lo avrebbe fatto trasferire in altraitalia sopra ai monti delle Alpi. Non si faceva convinto. Un giorno a tuo padre lo prese a maleparole, gli disse che era un traditore e un guastafamiglie che non ti aveva insegnato l’educazione».
Antonio ebbe paura che la vecchia continuasse il racconto e che altre parole potessero sconquassare il ricordo di suo padre, distruggere la storia della sua famiglia costruita da sua madre. Tolse, quasi con violenza, la busta dalle mani di Graziella, senza salutarla, uscì di corsa dalla casa. Pioveva forte. Arrivò alla stazione fradicio dalla testa ai piedi, si lasciò cadere sulla panca della sala d’aspetto e chiuse gi occhi. Si addormentò. Il fischiò di un treno lo riportò alla realtà.
«Il prossimo per Napoli?»
«Tra quaranta minuti»
«Poi trovo la coincidenza per Milano?».
«Allora, mi faccia controllare … Sì, sì, se non ci sono ritardi, dopo venti minuti c’è il diretto Napoli Milano».
«Grazie, mi faccia il biglietto».
In treno, cercò uno scompartimento vuoto. Chiuse la porta, abbassò le tendine, tirò fuori la busta dalla tasca. Aiutandosi con la penna l’aprì. C’erano venti biglietti da 10.000 lire. Non le aveva mai viste, sicuramente erano fuori corso da un pezzo, guardò perplesso le due figure femminili stampata sulle banconote, sul retro c’era il profilo di Dante. Dentro la busta trovò anche un biglietto piegato in quattro. Una scrittura goffa, quasi da bambino.
Arrivò alla stazione di Milano che stava albeggiando, una pioggerellina mista a ghiaccio cadeva fitta, faceva freddo. Il vento forte di levante si infilava infido tra i vestiti ancora bagnati, ebbe un brivido. Aveva parcheggiato in una via laterale. Pregò che la sua auto si mettesse in moto. La vecchia cinquecento non lo tradì. Arrivò a casa mentre squillava il telefono.
«Pronto?».
«Buongiorno Antonio, scusami per l’ora. Ti ho svegliato? Perdonami ma c’è una emergenza».
«Ciao Stefania, tranquilla, non preoccuparti. Che è successo?».
«Devi venire subito al giornale, forse il capo ti spedisce a Beirut».
«Dove? A Beirut, in Libano? In vacanza?».
«Che vacanza e vacanza… Ieri con un camion pieno di esplosivo hanno fatto un attentato all’ambasciata degli Stati Uniti di Beirut. Forse è stato un terrorista suicida. Sono morti diversi marines americani e decine di libanesi. Una strage».
«Porca pu …, scusa Stefania, va bene, arrivo subito».
«Sbrigati, ti aspetto, ciao».
Stefania gli voleva bene. Diciamo pure che gli faceva il filo. Anche a lui piaceva quella ragazza piena di vita, così esuberante. Oramai era solo da quasi due anni. Rossella lo aveva lasciato, senza neanche una spiegazione. Solo un biglietto con poche parole scritte velocemente con una grafia brutta e grossolana: “scusa, mi sono innamorata di un altro”.
Tirò fuori dalla tasca il foglietto che aveva trovato nella busta insieme alle banconote e lo rilesse ad alta voce come se volesse farsi sentire da qualcuno.
«Cara Lucia, perdonami, mi sono innamorato di un’altra donna, ti chiedo scusa. Giovanni».
Antonio rise e, mentre andava verso il bagno, si fermò davanti alla fotografia di sua madre e continuando a ridere disse: «Mamma, hai capito? Questa è la legge del contrappasso, come diceva Dante, proprio lo stesso Durante degli Alighieri la cui immagine è stampata su queste banconote» – fece volare i soldi per il corridoio – «solo che c’è un errore, io non sono Giannino, sono Antonio».
Continuò a ridere e rideva ancora quando arrivò in redazione e Stefania gli disse che il capo era incazzato nero per il ritardo.
«Antonio, che ridi, sei impazzito, ma che fine hai fatto?»
«Tesoro, la colpa non è mia ma della bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta».
«Cosa? Antonio basta scherzare, il direttore sta gridando da due ore. Dai svelto!».
Spinse il tasto dell’interfono e con una voce dolcissima capace di spegnere qualsiasi tensione, annunciò l’arrivo di Antonio.
«Direttore, il dott. Vacca è arrivato. Faccio entrare?».
«Alla buon’ora. Certo, certo, lo faccia entrare».
Antonio, continuava a fissarla sorridendo e le lanciò un bacio volante.
«Svelto entra … bauscia».
«Stefania … amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese di te piacer sì forte,
che vorrei portarti fuori a cena. Magari appena rientro da Beirut».
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