Racconto di Edoardo Di Paola e Amedeo Di Paola
(Adattato dall’omonima opera di E.A. Poe)
(Prima pubblicazione – 22 giugno 2021)
Una volta, stanco e affaticato, peregrinando in un tetro dì per un desolato campo, rimuginavo su molti strani e astrusi volumi di obliata sapienza, prigionieri della mia biblioteca e che, sapevo, mai più avrei rivisto. Mentre, cinto dai miei pensieri, socchiudevo gli occhi, mi riscosse d’improvviso un frusciare sommesso, a tergo, un delicato rumore di fronde, un sottile crocidare.
“E’ un pellegrino ; un agreste viandante, incuriosito dalla mia singolare presenza, solo questo e nulla più”.
Ah, distintamente ricordo che si era in un tormentato dicembre e che ogni stizzo morente della brace che mi rincuorava le membra, disegnava un suo particolare spettro sullo spoglio terreno.
Sospiravo ansioso il mattino; giacché invano avevo chiesto alla Terra Madre di lenire il mio dolore, ché risposta alcuna i libri mi avevano offerto – il dolore per la perduta Lenora- per la rara e radiosa fanciulla cui gli angeli dan il nome di Lenora – ma che qui non avrà un nome, mai più. Il serico, triste fruscio di pallida erba, fronde, arbusti, mi suscitava un brivido – m’accendeva d’immaginari terrori mai prima avvertiti.
Sicché, infine, per placare il pulsare del mio cuore, mi convinsi ad abbandonare la mia anima all’oblio di Morfeo e mi stesi, all’ombra della brace, ripetendo: “E’ un pellegrino che insiste sulla mia egual via, qualcuno che s’attarda e inciampa sulla mia strada: solo questo e nulla più.”
E quando il sonno mi colse, ti rividi; la mia Lenora, sul talamo di morte, negata a me e a questo mondo da un fato cupo e amaro. E quando sfioravo il tuo viso, Lenora, le mie mani erano fredde quasi quanto te e rivelavano la tragedia che ci accumunava. Di tanto, in tanto, l’anima di un uomo tace un così pesante fardello che solo la tomba può accoglierlo; e quindi, l’essenza del delitto non viene conosciuta. La memoria della nostra comune sfiorita felicità costituisce il mio eterno tormento del presente.
Allora, il germoglio dell’alba mi infuse coraggio; e al ripetersi dell’umile gracchiare, annunciai, senza più indugio:
“Mio Silvestre compagno di viaggio, umilmente ti chiedo perdono, ma il sonno mi colse e il vostro frusciare fu così sommesso, così leggero fu il segno della vostra presenza, un tenue ciarlo, che appena ero certo d’averlo io inteso”.
Quindi mi accostai al vetusto tetro groviglio che troneggiava solitario e fiero, come mai più io sarò. Tuttavia, nulla colpì i miei sensi, solo il silenzio e nulla più da contemplare.
Ed io scrutai allora con cura in quel ginepraio di rovi, sostai lungamente, con dubbio e timore, sognando sogni che mai un mortale osò prima sognare; ma non v’era nulla da contemplare; solo un crudele alito di vento, che mi travolse l’anima con il suo bisbigliare; un’unica singola parola, mi giunse: “Lenora!”. Solo questo e nulla più. Ma appena prima di abbandonare l’insignificante groviglio, mi avvidi che ai miei piedi giaceva il ritratto della mia Lenora, bizzarramente sfuggito alle pieghe del mio saio. La ammirai, quantunque la sua immagine fosse eternamente intagliata nella mia mente e rimessa l’effige al sicuro, ripresi il cammino.
Col cuore infiammato, proseguì il mio infelice peregrinare,
e ancora, udì il ciarlare di un uccello, da qualche parte, sopra il mio capo, un po’ più forte, insistente, dall’ultima volta che l’avevo udito.
Dissi: “Certo, c’è qualcosa qui fuori con me; m’accerterò, dunque, esplorerò questo mistero; con cautela esplorerò questo mistero; sarà il vento e nulla più”.
Volsi gli occhi al fosco cielo: e allora con strepitio d’ali un maestoso corvo volteggiò beandosi della mia attenzione; non fece alcun cenno d’ossequio, non un attimo s’arrestò o indugiò; ma con portamento d’un gran signore o di dama si posò su un alta roccia a lato del mio cammino – si posò proprio in cima alla rupe – lassù si posò e nulla più.
Inducendo allora quest’uccello d’ebano un po’ al sorriso i miei tristi pensieri, con il grave e severo contegno che si dava, allora gli dissi: “Per quanto la tua cresta sia rasa e tagliata, tu non sei certo né vile né spregevole, orrido cupo e antico corvo, qui giunto dalle rive della notte; dimmi qual nobile nome è il tuo sulle plutonie rive della Notte!”.
Disse il corvo: “ Mai più”.
Molto fui stupito a udir parlare così distintamente quel goffo uccello, quantunque non avesse molto senso, scarsa attinenza avesse anzi la sua risposta, poiché certo ognuno converrà che, sebbene un così banale incontro non possa crear meraviglia, è invero cosa certa che a nessuna persona vivente toccò mai di vedere un uccello posato su una rupe con tono grave e con un tale nome: “Mai più”.
Ma il corvo, solitario sedendo sul placido trono roccioso, altro non disse che quella sola parola, quasi che tutta la sua anima in quella sola parola avesse profuso.
Né altro più aggiunse – né piuma più scosse – finché dissi, in un soffio: “Altri amici già volarono via e domani anch’egli andrà via, come le speranze che già tutte volaron via”.
Disse allora l’uccello: “Mai più”.
Attonito per quell’appropriata risposta che così infrangeva il silenzio, ripresi: “Senza dubbio, è quel che dice tutto quel che sa, appreso da qualche infelice padrone che la sventura strinse dappresso, sempre più, finché ogni suo canto non si ridusse che a quel ritornello finché gli inni della sua mesta speranza non si ridussero che a quell’unico, malinconico, mai più”.
E mentre il corvo ancora m’induceva al sorriso i tristi pensieri, ripresi il penoso cammino, avvolto dal mio saio e dall’aria umida dei monti; mi diedi a collegare pensiero a pensiero, domandandomi cosa mai quel sinistro uccello d’altri tempi volesse dire, gracchiando “Mai più”. Così proseguivo tra lande primitive, immerso nelle mie congetture e non più mi volgevo all’uccello i cui fieri occhi sentivo bruciare sulla mia schiena.
A un lato della mia via, dinanzi ad una reliquia di tempi scomparsi, un consunto uomo, la cui visione delle vane beltà di questo mondo era preclusa, apostrofò il vento con fare guardingo. Disse: “Chi vaga nell’oscurità? Manifesta la tua presenza, non dileguarti senza proferir verbo!” Allora risposi: “ Non ho intenzioni nocive; sono solo un’ affaticato viandante e nulla più”.
Così andai oltre, impugnando la solinga via che il destino mi aveva imposto, ancora rimuginando su quel vento che ostinatamente mi suggeriva il tuo nome, voltata la testa su un fiore viola sul quale il sole fissava il suo occhio di luce e che lei, infelice Lenora, non potrà vederlo e toccarlo mai più.
Poi, così mi parve, diventò l’aria più densa, quasi fosse profumata da un invisibile incensiere da serafini agitato, col suono dei loro passi che sfiorano la terra.
Il corvo abbandonò la nuda rupe, volteggiò su di me, adagiandosi con algido sdegno sul ramo di un albero e si mise a fissarmi.
“Ah, misero”, “mostro del male! profeta pur sempre, uccello o demonio! Sia che il maligno stesso t’abbia mandato o la tempesta qui gettato sulla riva, afflitto ma non domato, su questa deserta terra stregata su questa casa visitata dall’orrore ora dimmi, io t’imploro “Lei potrà giacere infine in pace? Dimmelo, io t’imploro!”
Disse il corvo: “Mai più”
Gli dissi: “Profeta”, “mostro del male! profeta per sempre, uccello o demonio! Per quel cielo che su di noi s’incurva per quel Dio che entrambi adoriamo, dì a quest’anima oppressa se mai nel remoto Eden abbraccerà mai più una fanciulla beata che gli angeli chiamano Lenora”
Disse il corvo: “Mai più”.
Con durezza, apostrofai il corvo e agitai un braccio minaccioso verso di lui e gli ringhiai contro, minaccioso: “E sia questa tua parola per noi ora segno d’addio, ritorna alle tue tempeste e alle plutonie rive della notte. Non lasciarmi nulla della tua nera piuma a significar la tua menzogna! La mia solitudine lascia a me intatta, e tu lascia quell’insulsa fronda e libera da te la mia veduta. Porta via il tuo becco dal mio cuore, porta via la tua figura dalla mia veduta”.
Errai, insensibile a nulla che non fosse il tuo ricordo. Sotto ai miei piedi il fiume sussurra sommesso, sussurra in eterno, acqua errabonda, fulgido flutto di lucido cristallo. Ma non indugiai nel mio cammino e deciso proseguì lungo la diritta via che affatto avevo smarrito.
Disse il corvo: “Mai più”.
Rifiutai di donare anche un solo frantume della mia anima a quell’incubo figlio del buio e, alfine, quando fui quasi giunto al luogo che avrebbe incoronato la mia liberazione.
Una prava anima, egra e marcescente si presentò alla mia vista, da un oscuro recesso di quel luogo ameno; un’insensibile catena lo ancorava a quel poco tempo che ancora gli era concesso di trascorrere su questa terra; gli dissi: “ La maschera della morte nera si è impadronita anche di te. L’incubo delle tenebre stringerà presto la sua morsa eterna sulle nostre anime, amico mio”; così lo lasciai.
Sapevo d’esser ormai vicino al culmine del mio ermo e oscuro cammino; in questa strana, selvaggia contrada che si stende fuori di spazio fuori dal tempo, mi trascinavo, impotente, da un fosco destino. In questo lazzaretto dello spirito e della carne passai accanto a disperate e sole anime, a demoni oscuri che non ebbi l’ardire di osservare apertamente.
Nulla la mia volontà.
Un succube pupazzo, una marionetta della mia fosca sorte
prostrato a un’oscurità che mai mi sarà possibile allontanare.
Ma io sapevo che uno solo moto di libertà mi restava ormai, un unico gesto o mia Lenora, per ricongiungere le nostre anime gemelle, perdutamente incatenate al giogo della pestilenza.
E il mondo stesso non è forse un gigantesco, immane sepolcro? E vagai, quindi, celere quanto la mia anima mi consentisse e lo sguardo di quelle croci attorno a me offendeva la mia carne e dalla stessa terra mi giungeva l’urlo disperato inflitto al mondo dalla pestilenza.
E sopra ogni angosciata umana forma, cala il sipario, drappo funereo, dramma inspiegabile, del quale l’eroina è la Maschera della Morte Nera.
Ma un orribile ombra offuscò la mia vista, un oscuro necroforo, un corvino rostro, personificazione del flagello che ti colpì, mia Lenora e presto, molto presto, alfine, strapperà l’anima anche dalle mie carni. Quella tetra ombra non proferì un fiato, pur osservandomi, credo e altrettanto io feci e fiero puntai ancora lo sguardo sul tuo sepolcro.
E il faticoso cammino che mi condusse in questo luogo malinconico, lugubre e tuttavia non abbandonato,
Mi venne istigato dal pietoso rimorso d’esser stato cagione del tuo imperituro sonno. La tua anima, disperata e sola fra i bui pensieri di una grigia lapide.
Sentivo gli occhi di quel demone alato, su di me, assassini della mia anima. Ma, nemmeno per un attimo, sviai dalla rotta verso la mia destinazione suprema.
Cupe nubi di inquietudine mi opprimevano; ovunque posassi lo sguardo non vi era che l’immagine della morte. Quando infine veni a sepulcrum dolce Lenora era solo la tua memoria, derelitto il tuo riflesso in me, che poteva sostenermi sul baratro della follia.
Più al corvo resi neppur una scheggia della mia volontà; solo a te mia Lenora gli ultimi barlumi della mia essenza; solo per te, Lenora decisi di rendere la mia anima al buio oltre l’ignoto.
Poiché vago è il confine che divide la Morte dalla Vita e io non posso più esser sicuro di sapere dove finisca l’uno e inizi l’altro.
Prostrato sul tuo sepolcro, piansi le mie lacrime penitenti e sterili, bagnai l’ immonda stele che pesava sui tuoi inconcepibili resti; e quelle lacrime erano così pesanti da a scavare le rocce in cerca di te. E attorno a noi, le croci continuavano a urlare senza voce.
Questo posto è tutto ciò che la Morte Nera è: il buio, il disfacimento, dominano indisturbati su tutto.
Non riesco più nemmeno a concepire il prode Sisifo al colmo della sua felicità; più nulla, ormai, può quietarmi.
La mia anima è tua o Lenora.
Gettai un orrida, sfuggevole occhiata al corvo, che, impassibile, mi violava con i suoi occhi;
E allora, con un triste sospiro, agii; bramavo il momento in cui tutto ciò avrebbe avuto termine; da ultimo, saremmo giaciuti insieme là dove i morti devono stare.
E lacrime penose laceravano il mio spirito, mentre dalle pieghe del mio saio portavo a favor de il miei occhi, l’ultimo simulacro che di te mi rimane.
E mentre lo riducevo in polvere, scorsi il corvo; non rifulgeva nessuna comprensione per me nei suoi occhi e io mi specchiai in lui e gli rivolsi un eccentrico e mesto sorriso: “Non so se la mia morte ti porti soddisfazione, ma io da oggi sarò libero: non più il rimorso della colpa mi opprimerà; non più il pensiero che, seppur fui io il primo tra noi due a esser marchiato dalla morte nera, fosti tu, mia Lenora, a ricevere l’onere dell’oblio; non più beni, non più desideri, più nessun male o corvo”.
E allora, mi sporsi dal muretto di pietra che delimitava quel sepolcro: delle spoglie e insensibili rocce mi osservavano mute dal basso.
Se guarderai a lungo nell’abisso, l’abisso vorrà guardare in te.
Parlai al corvo: “Non c’è, forse, in natura una passione diabolicamente più impaziente di colui che, tremando sull’orlo di un precipizio, medita di gettarvisi”
”Corvo, vi dico che se mi ritenete pazzo, cadreste in errore; la mia non è follia, è soltanto estrema acutezza dei sensi”.
“Forse, forse tutto quello che un uomo può sperare, allora, è solamente morire con i giusti rimpianti”.
Quindi volsi gli occhi al cielo e al baratro sotto di me e non più al nero Corvo e allargai le braccia: “Signore, aiuta la mia povera anima”.
L’abbraccio dell’oblio è tutto ciò che più mi avvicina a te, Lenora.
Ma disse il corvo: “Mai più”
E mai più volando via da lì, il corvo ancora lì posa, ancora lì siede, sul rinsecchito ramo, sulla dura rupe, dimora la mia anima e mai i suoi occhi mi abbandoneranno e sembrano i suoi gli occhi d’un demone che sogni e la luce del sole ne getta l’ombra sulla nuda terra; e la mia anima da quell’ombra che fluttua e tremola sulle pietre
non sarà sollevata mai più.
Non fu che un odioso inganno. Ciò che dei miei occhi era rimasto mi concesse la grazia di riaffacciarmi al mondo e lei non v’era. Solo la mia solitudine, la mia sofferenza. La casa, una vuota, fredda caverna. La maschera della morte nera, inappellabile simulacro dell’indifferenza, mi cingeva sempre più con il suo abbraccio. Quelle coperte plasmate dal mio sangue, mi ancoravano al mondo e mi tenevano lontano da te, Lenora.
Lui ancora mi osservava, senza emetter verbo. I nostri occhi divennero uno soltanto, si incontrarono, proprio lì, dentro quel vetro che mi separava da una vita che mai più vivrò.
Allora dissi: “Mai più, mai più, mai”.
Tutto ciò che vediamo o sentiamo non è altro che un sogno in un sogno.
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