Racconto di Annella Andriani Aloja
(prima pubblicazione – 13 luglio 2020)
Al tempo in cui ho vissuto questa emozione, frequentavo l’Università.
Per seguire un corso di specializzazione, sapevo che mi sarei dovuta trasferire da lì a poco in un’altra città. Ero una giovane donna che viveva in una famiglia agiata, non soffrivo di solitudine, e neppure di invidie. La mia casa era una casa comune in un certo senso, molto frequentata da amici dei miei genitori e dei miei fratelli più grandi. Alle volte organizzavamo feste a cui partecipavano anche i miei amici di scuola.
Nel quartiere però vi erano anche case povere, maltenute da chi ci abitava, insomma quelle case definite bassi dove si assembravano famiglie numerose, oggetti utili e inutili, insomma individui che vivevano quasi sul filo del rasoio. La legalità era una parola vuota, priva di quel significato che la gente perbene, come affermava mio padre, gli attribuiva. Passando per quei vicoli maleodoranti non restavo indifferente, anzi, avrei voluto affacciarmi e guardare dentro, sentivo voci, urla, e alle volte avvertivo violenza, ma il mio timore di sembrare curiosa mi faceva desistere. Alle volte esternavo ai miei genitori questo mio desiderio di conoscere la realtà in cui vivevo. Mia madre si affrettava a dirmi:
– “ Bisogna frequentare persone migliori di noi se vuoi diventare qualcuno” – e mi zittiva.
E quando cominciai a frequentare amici e amiche dei cosiddetti quartieri alti, i miei furono contenti e mi convinsi che frequentandoli sarei potuta entrare in quegli ambienti e magari diventare una di loro. Questa segreta speranza che mi frullava nella mente mi convinse che un giorno, non lontano, avrei potuto accedere nel Gotha della Cultura e dei luoghi frequentati da quei professionisti di cui notavo l’eleganza e la ricchezza.
Un bel giorno mi accorsi che non potevo più sopportare la vista dei poveri, rifuggivo ambienti in cui la miseria era palese, cominciai a deviare per altre strade per non attraversare quelle zone in cui, in tempi passati, incontravo gente sporca, dove vedevo bambini scalzi uscire ed entrare in quei bassi angusti che emanavano anche a distanza odori misti a olezzi di cibo avariato.
Quando arrivò il momento di trasferirmi in un’altra città, chiesi informazioni circa gli abitanti dei quartieri, dove si fittavano le case agli studenti. Le notizie furono più che rassicuranti, anzi, quando mi chiedevano la mia città di origine, o il quartiere, mi limitavo a notizie vaghe, limitate ai luoghi noti e di rilevanza storica e architettonica della mia città. Mai mi espressi circa gli abitanti della mia zona. E se qualcuno accennava a quel certo quartiere, rispondevo che non lo conoscevo, che non lo avevo mai visto o frequentato, insomma mi vergognavo. Qualcuno mi parlava di famiglie che in quel luogo abitavano, che erano persone bisognose di tutto. Mi limitavo ad ascoltare, fingendo di cadere dalle nuvole.
Nel nuovo quartiere di questa cittadina ubertosa e bianca, vi erano botteghe, artigiani, gente modesta che nascondeva con maestria le difficoltà in cui viveva. Dopo mesi scoprii che alcuni di loro rasentavano la povertà, ma che si camuffavano per non apparire tali agli occhi degli studenti e di chi veniva ad abitarci per motivi di studio o lavoro. Appena sistematami incominciai a guardarmi intorno, cercai luoghi frequentati dai miei colleghi studenti: biblioteche, librerie, pub, luoghi di aggregazione giovanile.
La mia stanza era una delle camere di un’abitazione la cui proprietaria affittava le stanze agli studenti. Una casa ben tenuta, che aveva visto tempi migliori, sicuramente. La signora Matilde de Castis, e suo marito, erano, senza ombra di dubbio, una coppia di nobili decaduti che per non rinunciare al loro status, avevano deciso di affittare. Alle volte, durante le pause mi trattenevo a parlare con lei, e quello che riuscivo a cogliere dai suoi discorsi un po’ inverosimili, era che lei pensava che solo parlandone le dava la possibilità di mantenere quel suo status, addirittura, che potessero ritornare i bei tempi andati.
Alcune volte il loro atteggiamento diveniva scostante, mi sentivo non accettata, come se fossi un animale domestico che però era costretto a rimanere sulla soglia, a cui era vietato entrare e che per sopravvivere doveva restarsene fuori.
Nella mia camera vi erano una libreria, una scrivania e un letto. Vi era anche una finestra che si affacciava sulla strada principale, e di fronte potevo ammirare una grande casa, imponente, definita storica, dalla mia padrona di casa. Aveva un enorme portone di legno scuro con uno stemma al centro di ognuna delle due parti, e come maniglia un pomello d’ottone che il mattino rifletteva il sole. La luce abbagliante entrava dalla mia finestra e colpiva il mio volto e i miei occhi, praticamente mi svegliava.
Mi svegliavo e secondo il riflesso immaginavo che tempo c’era fuori: una bella giornata di sole oppure una grigia e uggiosa mattinata.
La facciata di questa casa aveva delle curiose immagini dipinte, fiori stilizzati, soprattutto calle sinuose e tralci di rose, faceva pensare ai decori raffinati di arte Liberty. Alle volte restavo a guardare, come ipnotizzata, osservavo quella facciata, i suoi decori, le finestre e quel portone maestoso sempre chiuso. Mi aspettavo che una volta o l’altra qualcuno entrasse o uscisse o si affacciasse. La mia curiosità mi suggeriva strane storie: volevo capire chi abitava quel luogo, magico e al contempo intrigante e misterioso. La mia immaginazione, già embrione di scrittrice, mi suggeriva che in quel luogo fosse celato un segreto, un segreto inquietante.
Passavano i giorni e nulla accadeva. La mia testardaggine mi faceva sperare: aspettavo, aspettavo, e mi dicevo si aprirà una buona volta quel portone. I giorni trascorrevano e il portone non si apriva, restava serrato a tutti, e soprattutto alla mia speranza.
Una notte, tornata a casa da una festa, non mi attardai a leggere, mi addormentai subito. La mattina presto fui svegliata da voci confuse, rumori che venivano dalla strada. Mi alzai e stropicciandomi gli occhi mi avviai verso la finestra per guardare da dove proveniva tutto quel baccano. Sorpresa! Il portone del palazzo di fronte e le finestre erano spalancate. Un via vai di gente, uomini e donne, che entravano e uscivano con scatoli e oggetti, come a voler ripopolare quella casa vuota e silenziosa da tanto tempo. Sembrava un set cinematografico, che stessero per girare un film oppure, più semplicemente, per organizzare una festa. Dalle finestre spalancate potevo vedere cosa portavano e dove le poggiavano: candelieri, fiori, tende, vasi, quadri; insomma ogni cosa possibile ad animare quel luogo disabitato. Il movimento durò fino a sera. Il portone si richiuse, anche le finestre ritornarono serrate. Tutti si allontanarono, e il silenzio ritornò inquietante e misterioso.
Il giorno successivo gli avvenimenti del mattino prima si riproposero, e per altri giorni ancora: incominciavano al mattino presto per concludersi in tarda serata. Poi, il silenzio ritornava con le tenebre. Più volte chiesi lumi alla signora Matilde, ma lei taceva, sembrava volesse nascondermi qualcosa di imbarazzante.
Trascorse tutto gennaio e febbraio, l’inverno sembrava voler lasciare il posto alla primavera, ai suoi colori, profumi e umori. Nessuno era più entrato e uscito da quella casa. Il pomello continuava a riflettere il sole e a inviarmi luce e calore. Mi soffermavo a guardare, avvertivo una strana sensazione come se lì dentro ci fosse qualcuno che danzava, cantava, viveva in segreto in quella casa dal portone serrato.
Un giorno, mentre mi recavo in biblioteca, intravidi una giovane donna che somigliava a una che avevo visto entrare e uscire da quella casa nei giorni della confusione.
La fermai, e, senza esitare, le chiesi:
“Chi abita in quella casa?
Come mai tutto quel via vai si è fermato all’improvviso?”.
La giovane donna, sorpresa che l’avessi riconosciuta, mi chiese chi fossi, perché mi interessavo a quella casa e dove abitassi.
Mi disse che quella casa era di una certa signora che ogni anno ritornava da chi sa quale paese e di cui non sapeva nulla. Lei era ingaggiata ogni volta per fare pulizie e tenere in ordine nei giorni in cui la signora si tratteneva. Aggiunse che stava per ritornare.
Passarono un paio di settimane. Guardavo ogni mattina quel portone e quelle finestre. Nulla.
La primavera era inoltrata, l’estate si faceva sentire con temperature che diventavano sempre più calde e umide. Una mattina sul tardi sentii una frenata. Un’auto si era fermata lì davanti. Mi alzai dalla scrivania e andai verso la finestra, volevo vedere cosa stesse succedendo. Vidi una Mercedes metallizzata entrare nel portone che era stato spalancato. Appena dentro, si richiuse, poi il silenzio ebbe la meglio. Nel pomeriggio, la grande finestra del balcone principale che dava sul portone, si spalancò. Ero lì a guardare quando apparve una signora molto elegante, accanto ad un grosso cane, che sembrava una scultura mobile. Lei, si guardò intorno, guardò anche me con sufficienza. Indossava un abito elegante ma di altri tempi. Dopo pochi istanti fu raggiunta da un signore altrettanto elegante che si appoggiava a un bastone. La sua andatura era lenta, quella di un signore non giovanissimo. Indossava un abito grigio, un gilet e un fazzoletto nel taschino. Inoltre portava un orologio con catena simbolo di eleganza, un uomo sicuramente di altri tempi. Il suo sguardo adorante puntava la signora. I suoi occhi erano fessure, li immaginavo di un celeste cielo. Il suo guardare era discreto. In realtà il suo obiettivo era di attraversare quella donna, raggiungere la sua anima e dirle quanto la adorasse. Questa scena accadde per settimane: ogni pomeriggio apparivano e dopo poco scomparivano. Le finestre si richiudevano come per nascondere la loro intimità. Prima di rientrare però una donna e un uomo, porgevano loro dei mantelli per proteggerli dal fresco e dall’umidità. Poi una appoggiata all’altro, insieme rientravano e tutto ripiombava nel silenzio. In tutti questi giorni la coppia non mi degnò mai di uno sguardo fino a quando, mi accorsi dello sguardo di lui su di me. Forse nei giorni trascorsi si era accorto di me e di come li osservavo ipnotizzata. Lo salutai con un cenno della mia mano. Lui ricambiò. Fece un cenno con la testa, quasi un inchino. Ci guardammo per pochi attimi. Lei continuò a vagare con il suo sguardo. Mi faceva sentire trasparente. Una brutta sensazione, lo confesso.
Prima di rientrare, come ogni sera, lui mi fece un altro cenno, e il balcone si richiuse alle sue, anzi, alle loro spalle. Da quel giorno mi salutò sempre con le stesse modalità. Io ricambiavo facendo altrettanto. Trascorsero così altri giorni.
Una mattina, molto presto, sentii la sirena dell’ambulanza. Mi affacciai. La vidi. Era accaduto un fatto grave. All’improvviso quel signore era morto, si era tolta la vita. Scesi di corsa, volevo capire. Non per curiosità ma per quel saluto che mi aveva donato in quegli ultimi giorni. Rividi quella giovane cameriera a cui chiesi com’era successo e lei mi riferì con le lacrime agli occhi, che la signora lo aveva lasciato improvvisamente durante la notte, non lo aveva avvisato. Lui, svegliandosi, non avendola trovata capì che l’amore era finito e non potendo sopportare l’abbandono, aveva deciso di morire. Rimasi lì scioccata, e mentre portavano via la salma, vidi serrare porte e finestre da chi aveva avuto cura di loro.
Pensai che quella casa fosse tornata per poco tempo una casa felice in cui un uomo e una donna si erano amati. Da giovani erano stati amanti anche appassionati, ma si sa, la passione finisce e si porta via ogni traccia d’amore. Lui, ricco nobile, aveva dissipato tutti i suoi averi per renderla felice.
Passarono giorni, la casa era rimasta chiusa dopo l’accaduto. Il pomello continuava a inviarmi il suo raggio di sole ed io mi alzavo e guardavo verso quelle finestre chiuse, ormai per sempre. E invece una mattina, vidi il portone aperto, qualcuno che portava via cose, oggetti, abiti, mobili. Mentre osservavo con nostalgia, una donna mi chiamò, mi fece cenno di scendere, di raggiungerla. Scesi, non capivo cosa potesse volere da me. E lei mi porse una lettera con scritto sulla busta: Per la giovane signora alla finestra di fronte. Incredula la presi e francamente non avrei mai immaginato che quel signore che avevo salutato poche volte aveva pensato a me, lasciandomi una lettera. Rientrai. Presi la lettera e cautamente, la aprii quasi con il timore di profanare in qualche modo la memoria. La lessi. Diceva così:
“Carissima signora sconosciuta, ho saputo che è una studentessa fuori sede, le confesserò che ho un difetto: mi innamoro delle persone, degli sguardi, delle voci, mi innamoro dei portamenti, mi innamoro, insomma. E nonostante l’età e la distanza, mi sono affezionato a lei. Lei, che avrebbe potuto essere una mia amica, un nuovo amore, una passione. Quello che mi ha affascinato è che ha mantenuto le distanze, le stesse che me l’hanno resa simpatica, e che mi hanno affascinato e incuriosito. Io non ho nulla da lasciarle, una cosa però posso donarle: il ricordo di me.”
Commossa chiusi la lettera. Il giorno dopo lasciai la stanza, consapevole che non avrei più potuto guardare dalla finestra quella casa senza ripensare a quell’uomo che mi aveva donato una parte di sé, senza nulla a pretendere. UN RICORDO.
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