Racconto di Titti Preta
(Seconda pubblicazione – 5 febbraio 2020)
Un umore nero si stende su Tripoli. Fatima osserva la sua bambina e avverte una fitta al cuore: Khalida non gioca più da quando è scoppiata la “primavera araba”. I suoi occhi neri sono due olive secche avvezze a un cielo in cui le nuvole rosse grondano sangue.
I primi tempi, Khalida aveva paura delle fughe improvvise, delle case smantellate, dei palazzi scoperchiati, del suono perforante degli arbatash. Ora non più.
Fatima ha trent’anni, eppure si sente vecchia. Vive nel rimpianto dei suoi cari. La guerra le ha tolto i parenti maschi e l’amore della sua vita.
Prima della guerra, Fatima accudiva i suoi bambini, Youssuf e Khalida. Il marito, Sayyid, scaricava le casse dei cargo al porto di Tripoli e racimolava abbastanza per vivere.
Sayyid è morto in una notte di fuoco. Era uscito in cerca di cibo, per sfamare i bambini con lo stomaco vuoto da giorni. Tocca all’uomo dar da mangiare ai figli, a qualsiasi costo. Per strada si unì ai manifestanti e venne colpito da un missile. Fatima aveva cercato invano di trattenerlo. Quella fu la notte più lunga della sua vita, dopo la quale si ritrovò vedova e povera, con tante stoffe da rammendare.
Gli occhi neri di Khalida hanno pietrificato il pianto nella notte in cui il suo papà morì. Una notte senza luna e stelle, in cui cercava di dormire, ma la fame la divorava. Youssef era stato attratto da un rombo di un aereo, era corso alla finestrella e lei lo aveva seguito. Videro uno stormo di aerei, che le parvero giganteschi uccelli migranti.
I Mirage governativi, per rappresaglia, fecero strage di duecentocinquanta manifestanti. Tra questi, l’incauto Sayyid che, per la prima volta nella vita, aveva osato ribellarsi.
Il papà di Khalida: forte e sano, la cullava dolcemente quando non voleva dormire o la sollevava sulle spalle robuste da scaricatore di porto per farle vedere il mondo da un’altra prospettiva. Era morto da eroe: nel fiore dell’età e della bellezza.
Agli occhi neri della bambina si mostra ora una foto sgualcita, appesa al muro, senza cornice. Sayyid le sorride e le dice: “Non aver paura, piccola mia. Io sarò sempre al tuo fianco e ti proteggerò”.
Un giorno Fatima s’è rimessa a cucire vecchie stoffe colorate ripescate al mercato dell’usato. Quando Khalida le ha chiesto perché lo facesse, le ha risposto che le sarebbe servito a pagare la sua libertà. La bambina si è intestardita e volerne sapere di più, ma la madre l’ha rimproverata per la curiosità.
Fatima ha sempre parlato poco coi figli e, in generale, con la gente. Sin da piccola, le hanno insegnato che la miglior virtù di una donna araba è parlare solo nei momenti opportuni. Con gli occhi bassi, obbediente agli uomini, la testa nascosta dal velo e svuotata di sogni e idee, si è chiusa in un silenzio ermetico.
Per un’intera giornata, Fatima non ha fatto che cucire: a sera, ecco pronte due ampie borse di tela che ha colmato con ciò che ha potuto.
All’alba di un giorno nuovo, ha svegliato i bambini e li ha invitati a vestirsi subito. Ha affidato a Youssef, dodici anni, la sorellina, facendosi promettere che non si lasceranno mai.
Gli occhi neri di Khalida non lacrimano neanche davanti al commiato dalla madre. Si stacca dalle sue braccia, la bacia e offre la manina a Youssef, che invece piange, ma di nascosto, come un ometto.
Il barcone è stracolmo: cento e più disperati, per lo più uomini giovani. E alcune donne con neonati avvolti in coperte e un gruppetto di bambini con un tozzo di pane in bocca, muti. Le pareti dello scafo sono piene di ruggine, il cui odore sembra il tanfo della morte.
Youssef tiene la sorellina per mano e sale impassibile sul barcone dalla passerella di legno sdrucito, spinto da uno scafista rude e frettoloso, che controlla le somme di dinari. Neanche fa in tempo a salutare la madre o, forse, non vuole. C’è come un implicito risentimento verso Fatima che li abbandona al loro destino e ha promesso in maniera vaga che andrà a riprenderseli. Il ragazzino non capisce perché non hanno potuto aspettare e partire insieme verso la terra della speranza, che chiama Italia.
Fatima gli legge, per l’ultima volta, il suo pensiero. Niente le è mai sfuggito del suo primogenito maschio. Mentre lo fa, si stringe nella farashia, il lungo panno di tela con cui è obbligata a coprire gli abiti, si riempie di disperazione e fugge via.
Khalida, dall’angolino dove le è stato intimato di starsene zitta, guarda il mare accendersi di colori ora bluastri ora smeraldini.
L’uomo scortese e corpulento le ha detto che, se si muove, cadrà in acqua e lui non la ripescherà di certo. Se, invece, comincia a dar fastidio, la butterà lui in mare. Le fa così paura quest’uomo grasso e cattivo che se ne sta nascosta dietro Youssef.
Quando il barcone molla gli ormeggi, Fatima è già sparita dalla banchina, ma il figlio sente la sua voce nei timpani: “Quando sarai uomo, mi perdonerai e capirai che la libertà è stato il dono più grande che potessi mai fare a te e a tua sorella”.
Ora si sente il rumore del motore ed esala la puzza di petrolio. La Libia è una striscia di terra bianca che scompare e all’orizzonte si sovrappongono cielo e mare, al punto da confondersi. Youssef perde lo sguardo nell’infinito e pensa a quanto durerà il suo viaggio verso la libertà. Saranno tre giorni interminabili, per fortuna senza burrasca e, nonostante il peso eccessivo, il barcone proseguirà la traversata senza capovolgersi.
Gli occhi neri di Khalida, che durante il viaggio non invocano il sonno, vedranno comunque la morte. Il caldo afoso, insopportabile pure per la vicinanza cui i disperati sono costretti, mieterà le sue vittime: due madri che, per cedere ai figli la loro razione d’acqua, moriranno disidratate. Gli scafisti ne gettano i corpi in mare, mentre figli e mariti si dolgono in silenzio. Insensibile, Khalida continua a stringere forte la mano di Youssef, che impreca contro la vita.
Nel tardo pomeriggio del secondo giorno, Khalida e Youssef sono attraversati da un lampo improvviso. Cosa stanno facendo i due scafisti? Perché quegli strani scambi di sguardi mentre consultano dei fogli pieni di linee curve?
I bambini non sanno che si tratta di coordinate su carte nautiche. Non immaginano nemmeno cosa stia per capitare, a dieci miglia dalla terraferma.
I due scafisti spengono il motore e si mettono alla prua dell’imbarcazione, minacciando solo con lo sguardo chi oserà ribellarsi. Nessuno, neanche i più giovani e forti, si fa avanti per chiedere. Sanno bene che i due scafisti sono armati. Li vedono scavalcare il bordo del barcone e sbracciarsi per indicare a un motoscafo di accostare. In pochi secondi gli scafisti spariscono dalla loro vista e i disperati si trovano in balìa del mare, senza carburante, senza acqua e viveri.
I naviganti, lasciati allo sbaraglio, vivono un’odissea.
Dopo un giorno sconsolato, scorgono una nave bianca sulla cui fiancata, in una lingua che non conoscono, c’è scritto: “Guardia costiera”.
Khalida fissa a memoria quelle lettere nella sua mente e giura che non dimenticherà mai quei segni, per tutta la vita.
Nel centro di accoglienza di Lampedusa, i medici e i volontari della Croce Rossa parlano dei fatti di Tripoli e pronunciano un nome impronunciabile: Gheddafi.
Youssef, che sta sorseggiando una tazza di latte, li ascolta con attenzione, cercando di capire. Stanno parlando male della sua città. Certo, non di tutti quelli che ci vivono, ma di una parte.
Il ragazzino vorrebbe far capire loro quant’è bella la terra in cui è nato, vorrebbe descrivere loro Tripoli, i suoi colori, odori, sapori. Il Castello Rosso, i variopinti murales, l’arco di Marco Aurelio all’entrata nord-orientale della Medina, il policromo centro dove si contrattano le vendite in maniera concitata. A scuola la sua materia preferita era proprio la storia. Solo che Fatima da un anno e più l’aveva ritirato, per paura che potesse essere centrato per errore dal kalashnikov di un cecchino. Troppo pericoloso per un bambino camminare per le vie di una città asserragliata di rivoltosi contro l’esercito governativo.
Youssef ricordava invece com’era la sua vita prima di quella stupida guerra voluta dagli adulti e combattuta in nome di una parola che lui odia: la libertà. Cosa può interessare la libertà a un ragazzino che ha perso il padre e ha dovuto lasciare la sua casa, sapendo di non rivedere più sua madre?
Mentre il personale medico si prende cura di lui, Youssef ricorda quando, durante i giorni di festa, se ne andava da solo al mercato del pesce sperando che qualche turista occidentale gli regalasse un dinaro. Perché una cosa Youssef sa: che è stato sempre povero e la guerra ha peggiorato la sua vita. E l’ha allontanato da Fatima, che ha dovuto mettere in salvo la pelle dei figli su un barcone di fortuna e abbandonarli alle acque e al caso.
Nel centro d’accoglienza dove i due bambini risiedono da cinque giorni c’è un televisore che proietta solo immagini di immigrati stipati su barche e di politici che litigano perché non si mettono d’accordo su niente, e meno che mai sull’ospitalità da offrire a chi è in fuga dalla propria terra.
Mentre Khalida gioca con un Barbie che non assomiglia per niente alla bambola che le regalò sua nonna, Youssef non capisce perché in un Paese dove c’è tanto benessere e pace, gli uomini litigano sempre.
Cos’è l’Italia per i due fratellini? Un nuovo mondo, una nuova patria? Di certo un posto bello per viverci, con uliveti, viti, mare, sole, schiamazzi e gioia che ricordano la Libia d’un tempo. È la magia del Mediterraneo, ponte tra i poli, crocevia di razze e di culture: un mare bellissimo che unisce Italia e Africa.
Passa una settimana e i compagni di viaggio o di sventura vengono smistati in varie strutture d’accoglienza. I due bambini si tengono sempre per mano, per obbedire alla promessa fatta a Fatima.
Non si separeranno mai. Mentre viaggiano per strade di campagna irraggiate e profumate dai mille odori della macchia mediterranea, Khalida finalmente riprende a sognare.
I suoi occhi, neri e profondi, ora sì che brillano di una nuova luce, a lungo sognata: la felicità.
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