Racconto di Martino Contento

(Terza pubblicazione)

 

Le mani possono raccontare la storia di una persona.

Possono svelarne i segreti della vita. Sono la parte più nuda, quella che non possiamo nascondere agli altri, persino più scoperta del viso che possiamo salvare con la barba o con gli occhiali, cercando di confondere chi ci sta guardando. Ci copriamo, ci trucchiamo, ci trasformiamo, ma non possiamo travestire o cambiare le nostre mani. Saranno sempre pronte a parlare per noi, a dire la verità.

Quando, in un silenzio assoluto, guardavo le mani di Lillino che lavorava, era come se mi parlassero e mi raccontassero la misteriosa vita di quell’uomo.

Quelle mani erano il segno distintivo di chi deve, per forza di cose, affrontare la vita senza fronzoli inutili e senza aspettativa alcuna. Se c’era qualcosa da aggiustare, se c’era un lavoro da fare, Lillino era il tipo che si rimboccava le maniche e lo faceva, senza chiedere nulla, senza un lamento. Quelle mani erano la sua forza ma anche il suo limite. Non erano capaci di fare una carezza. Se dovevano accarezzare, si bloccavano, si fermavano, come se quelle dita dure, callose, unte di grasso non avessero il diritto di toccare altro che non fossero gli attrezzi, i tubi, le rotelle, gli ingranaggi. Erano mani che sapevano solo lavorare. Non sapevano amare.

Entrai la prima volta nella sua bottega che ero un ragazzino. Il carburatore della mia motocicletta nuova si era rotto irrimediabilmente. Bisognava sostituirlo. Quella moto speciale, modificata da Franco, o come diceva lui, truccata, era il mio orgoglio, faceva 95 km. all’ora. Per un 50 cc. era eccezionale, non potevo privarmene, ma non avevo nemmeno i soldi per sostituire il maledetto carburatore. Franco, mi disse che l’unico in grado di ripararlo per pochi soldi era Lillino o il Lupo, come lo chiamava suo padre e tutti i pescatori del Paese.

Lillino viveva in una vecchia rimessa nei pressi del porto. Di giorno era la sua bottega e di notte diventava la sua casa. Abitava da solo e si diceva non avesse alcun parente tranne un misterioso fratello che, secondo alcuni vecchi pescatori che l’avevano conosciuto, viveva in Perù, dove era scappato durante il fascismo, perché era anarchico, seguace di Errico Malatesta.

La prima volta che entrai in quella spelonca, mi sembrò di essere penetrato nell’antro di Efesto, uguale a come lo rappresentava Omero nell’Iliade. Da una fornace uscivano lapilli ed un rumore, simile ad un brontolio, da fare paura, mentre un fumo denso e acre avvolgeva tutta la stanza, faceva bruciare gli occhi e riempiva le narici. Lui era di spalle in piedi davanti ad un enorme bancone di legno e muoveva trapani, seghe, morse ed altri aggeggi. Pareva avesse almeno quattro braccia per come lavorava velocemente. Riparava i motori delle barche da pesca e sapeva ricostruirne le parti rotte. Per i poveri pescatori del Paese era un santo. Per la gente comune, una specie di pazzo sul conto del quale si raccontavano cose strane.

Per terra c’era di tutto. Travi di ferro, trucioli di legno e di metallo, vecchi motori, attrezzi d’ogni tipo, carrucole, corde e reti da pesca. Appese al muro centinaia di chiavi da meccanico di tutte le misure e di tutti i tipi che luccicavano colpite dal bagliore del fuoco e poi pinze, martelli e una grande quantità di altre mostruosità che parevano strumenti di tortura. I frastuoni che venivano dalla fornace sembravano i lamenti di condannati sottoposti a immani supplizi.

Stavo quasi per andarmene quando Lillino avvertì la mia presenza e, voltandosi di scatto, fece volare nell’aria la cenere della sigaretta che teneva sempre accesa al lato sinistro della bocca.

“Cosa vuoi ragazzo?” – mi disse con una voce roca, ancora più spaventosa del suo aspetto. Mi venne incontro e ripetendo la domanda, si tolse il mozzicone dalla bocca lo lasciò cadere per terra e si accese un’altra sigaretta. Non potevo più scappare. Pressato da Franco gli chiesi se poteva riparare il carburatore della mia motocicletta.

“Portala dentro” – e poi voltandosi verso Franco, aggiunse – “vediamo che cazzo hai combinato questa volta … mascalzone”.

Come se avesse letto qualcosa nei nostri occhi, capì che il motore era stato modificato per aumentarne la velocità.

Afferrò la moto dal sedile, senza il minimo sforzo la sollevò, l’appese ad un gancio, in modo da tenere il motore all’altezza dei grandi occhi rossi.

Per la prima volta vidi le sue mani enormi. Erano sporche, ma non sudicie. Erano nere di un colore che aveva oramai sostituito quello normale della pelle di un uomo. Erano forti e grandi, rugose ed in più punti graffiate e sbucciate. Mi facevano paura ma, allo stesso tempo, mi affascinavano quelle mani, come pure mi ammaliava quell’uomo.

Poggiò per terra la chiave a snodo con cui aveva allentato la candela e prese una pinza. Dopo qualche minuto il motore era smontato e il carburatore aperto, lo guardò per pochi istanti e asciugandosi il sudore dal cranio completamente pelato, mi disse:

“Torna domani”.

Si girò, tornò verso il bancone e rimise in movimento le innumerevoli braccia e le decine di mani.

Erano passati anni da quel giorno.

Il carburatore era stato riparato. Come era stata più volte riparata la motocicletta. Eravamo diventati amici io e Lillino, il Lupo.

Ogni domenica gli portavo una copia de L’Unità e, quando facevo volantinaggio, passavo sempre dalla sua bottega anche perché spesso trovavo alcuni pescatori con cui mi intrattenevo a parlare di politica, a discutere dei loro problemi. Se c’era gente Lillino, mi ignorava e mi salutava appena, pareva essere geloso della presenza estranea a noi due. A dir la verità anche quando eravamo soli non parlava molto.

Lo guardavo lavorare, ogni tanto gli facevo qualche domanda; rispondeva con cenni della testa o scrollando le spalle, raramente con dei monosillabi. A volte aggiungeva qualche parola ma appena si rendeva conto che stava parlando, imprecando contro chi lo faceva distrarre dal lavoro, con il martello batteva forte sul ferro stretto nella morsa scatenando un rumore assordante che impediva qualsiasi discorso. Era il suo modo di proteggersi dalla mia curiosità se si faceva troppo insistente o troppo intima.

Il lavoro. Per lui il lavoro, il suo lavoro, non era una semplice attività produttiva, era una ragione di vita. Un mestiere che implicava conoscenze rigorose e metodiche, intellettuali non soltanto manuali. Ogni suo gesto, compiuto con quelle mani vive, non serviva a creare cose in cambio di danaro. Lillino, con il suo lavoro, dava agli altri lo strumento per il riscatto. Il mezzo per rivendicare il diritto alla vita.

La bottega era nei pressi del porto, si sentiva il rumore del mare, anzi sembrava che il mare arrivasse fin sotto a quella fornace sempre accesa. D’inverno andavo a trovarlo spesso, era piacevole stare al caldo vicino al bancone guardandolo lavorare. Il mare faceva a gara con la sua fucina a chi emetteva il brontolio più cupo. Mi appollaiavo su un trespolo a cui lui fissava i tubi per tagliarli con un seghetto che faceva muovere avanti e indietro, così velocemente che sembrava quasi impossibile fosse azionato da un essere umano.

Lillino era un uomo, un grande uomo.

Osservavo le sue mani modellare, smontare, stringere, tagliare, limare, svitare e poi rimontare. Tutto funzionava di nuovo come per magia. Ruote e ingranaggi riprendevano a girare, motori che ansimavano, tornavano magicamente a vivere. La mia vita fatta di studi e di pensieri e politica, di ansia e passione, era così diversa dalla sua meccanica precisione che pareva infischiarsene di tutto quello che accadeva nel mondo.

Ad un certo punto, però, il travolgente divenire delle cose rese impossibile il mio oziare nella bottega di Lupo. Andavo a trovarlo raramente e restavo pochissimo tempo. Lui era sempre più nero ed anche la grotta diventava sempre più buia. Il fuoco non era più vivo e parlante come prima. Sembrava che tutto si stesse spegnendo nella bottega. Invece, piano piano stava cambiando la mia vita. Io non me ne accorgevo e mi pareva cambiassero solo le cose intorno, invece stava cambiando tutto. Fuori e dentro, proprio tutto. Lillino mi salutava sgarbatamente, era sempre più burbero. La scontrosità aumentava in rapporto al tempo trascorso dall’ultima mia visita.

Un giorno Franco mi venne a trovare in sezione per dirmi che Lupo era morto.

Avevano già fatto il funerale.

Tre giorni prima.

Aveva pensato a tutto Don Ciccio, il vecchio parroco della Chiesa del Porto. Lillino gli aveva sempre impedito di entrare nell’antro e, quando attraversava il marciapiede di fronte, con quei passetti veloci e ridicoli, provocava sempre le sue imprecazioni contro i preti e contro la Chiesa che per fare politica “Si è dimenticata di Cristo dei poveri e di San Francesco”.

Pioveva, faceva freddo.

Corsi verso la bottega, senza fermarmi, con la speranza di arrivare prima che la morte si portasse via la sua anima. Ero certo che fosse ancora lì e che mi aspettasse per salutarmi.

Mi fermai davanti alla porta chiusa. Non l’avevo mai vista chiusa quella porta. Era sempre aperta, si chiudeva solo a notte fonda quando Lupo, stremato dalla fatica del lavoro e dal vino, raccoglieva le ultime forze e il residuo della ragione per sprangare la spelonca e sprofondare nella solitudine della notte che, una volta me lo confessò, gli faceva paura.

Ansimando, feci l’assurdo tentativo di aprirla.

Era irrimediabilmente chiusa.

Sprangata.

Restai per un tempo enorme e breve insieme, davanti a quella porta. Riconoscevo tutti i segni e tutte le tracce della vita che, per un’eternità, si era svolta nella casa. C’era tutta la vita di Lupo in quei segni ed in quelle tracce. I segni del lavoro e della fatica. Ma anche della solitudine e dello scherno. I segni della profonda diversità di un uomo che per quella differenza era poco tollerato. Intagliate, con i chiodi, con il coltello, con le mani, con le pietre c’erano i tratti della grandezza profonda di un grande uomo.

La porta era definitivamente chiusa.

Fatalmente restava irrimediabilmente chiusa nonostante ogni tanto, nell’irragionevolezza della malinconia e della nostalgia nella quale ero sprofondato, tentassi, con sempre maggiore impegno, di aprirla.

Restò chiusa anche il giorno dopo e tutti gli altri giorni, per sempre.

Si era chiusa sulla mia adolescenza e su una parte della mia vita. Dietro c’erano le cose che non dimenticherò mai, quelle per le quali provo maggiore nostalgia.

Nessuno avrebbe potuto riaprirla.