Racconto di Claudio Loreto

(Seconda pubblicazione)

 

«Ma che senso ha?» domandano in tanti. «Oltretutto è pericolosissimo!».

In effetti, scrutando una cima, cos’è che in alcuni accende il desiderio di mettersi in marcia e salire, fino a raggiungerla? Forse un senso di ribellione all’irrilevanza dell’uomo, che la grandiosità senza tempo della montagna ci sbatte brutalmente in faccia, e dunque il bisogno di riaffermare sé stessi conquistandone la vetta? Chissà!

A me, comunque, interessa poco analizzare le pulsioni recondite che muovono gli scalatori; per certo so solamente che, quando da un picco contemplo quanto più mi è concesso del mondo, io provo uno stupore che mi leva il respiro e che desidero soltanto riempirmi, attraverso gli occhi, di quella incomparabile Bellezza. E, come motivazione, tanto mi basta.

«In alto, i brutti pensieri scompaiono dalla mente e le futilità umane, per un po’, diventano lontanissime» provo a spiegare a chi mi domanda. «Lassù esistono solo silenzio e senso di pace!». Mah, forse sono anche una certa sfiducia negli uomini e il bisogno di qualcosa di “pulito” a creare l’alpinista…

«Sensazioni sicuramente uniche, ma resta il fatto – mi ribattono puntualmente – che comportano fatica e rischi sproporzionati!». Beh, senza sete d’avventura l’uomo sarebbe ancora confinato in una caverna; e comunque attorno a noi la morte si annida ovunque: dobbiamo forse allora schivare qualsiasi cosa, evitare insomma di… vivere?

Anche in montagna l’importante è avere consapevolezza dei propri limiti, entro i quali ciascuno può poi trovare il “proprio” Everest che, indipendentemente dalla sua quota, avrà pari dignità e fascino della più grandiosa vetta himalayana, se conquistato con il cuore.

Quello di Valerio – il mio nuovo, giovane amico con cui ho preso ad andare di tanto in tanto su per creste – è stato fantastico. O almeno così gli era parso, al principio.

***

La “via normale” alla vetta del Monviso, lungo la parete sud, è tecnicamente poco difficoltosa; ciononostante è piuttosto pericolosa: ci si inerpica su sfasciumi di roccia, il terreno spesso si frantuma sotto gli scarponi e la minaccia di una pioggia di sassi dall’alto è continua… in parecchi sono volati giù!

Pur avendo toccato cime più complicate, nella testa di Valerio il Monviso era tuttavia diventato “La Montagna”: non tanto per la sua perfetta e solitaria forma triangolare, quanto perché intoppi d’ogni genere lo avevano obbligato a rinviarne la salita numerose volte. Così quel gigante di quasi quattromila metri era divenuto per lui una specie di miraggio; ed ora che – approfittando di un fine novembre insolitamente caldo (non molta ancora la neve caduta) – era finalmente arrivato lassù, si sentiva appagato come non mai.

Seduti sotto la grande croce di vetta, lui e il suo compagno di cordata Alberto contemplarono a lungo – in silenzio – i maestosi e innevati massicci dei Monti Bianco e Rosa e il Cervino, lontani ma nitidissimi in quella magnifica giornata di sole, e – dabbasso – la pianura padana, che si spandeva a perdita d’occhio: uno spettacolo simile è davvero capace di impedire al cuore di provare ancora sentimenti d’invidia.

«La religione è l’oppio dei popoli» sosteneva un illustre filosofo tedesco.

Certamente, se inculcata – distorta – in menti rozze, essa può fermare (o riportare) l’Uomo all’età della pietra. E tramutare Kobanê – una tranquilla città siriana al confine con la Turchia – in un ammasso di macerie; ma pur oramai così ridotta, i suoi abitanti curdi non intendevano affatto cederla agli invasati miliziani del cosiddetto “Califfato” che l’avevano – appunto – presa d’assalto: si combatteva dunque ferocemente attorno ad ogni spettro di casa.

Come molte altre ragazze anche Esirîn, messi da parte i libri e i suoi sogni da ventenne, aveva imbracciato un kalašnikov per difendere la città (entrando così in un incubo di scoppi, urla straziate e insonnia perenne). Gli aggressori avevano parecchia paura di quelle giovani: primitivi com’erano, credevano infatti che la morte per mano di una donna li avrebbe condannati a bruciare all’inferno per l’eternità.

Ma in quell’incerto mattino era invece il destino di Esirîn a farsi fosco. Nella loro lenta avanzata gli uomini in nero avevano infatti isolato il suo trinceramento ricavato tra le travi di una palazzina venuta giù; Kamar, il suo compagno di postazione, le giaceva accanto con gli occhi sbarrati, centrato da un colpo in piena fronte, e quelli adesso – con circospezione, ma inesorabilmente – si avvicinavano a lei.

La ragazza aveva una discreta mira e mentre i nemici strisciavano tra le rovine riuscì a consegnarne un paio al loro diavolo. Con tanti auguri! Ma sapeva bene che di lì a poco gli altri le sarebbero stati addosso e che nessun romanzesco soccorso sarebbe mai potuto giungere in tempo.

Dentro di lei la disperazione crebbe; il cuore prese a batterle in maniera forsennata, mentre le lacrime le scorrevano lungo il viso: non voleva morire, soprattutto adesso che – proprio nel mezzo di quelle cruente battaglie – aveva conosciuto, improvviso e inatteso, il sentimento più bello.

Quando l’aveva incontrato per la prima volta, dentro un umido scantinato elevato al rango di sala-comando, quel giovane spuntato lì dal nulla l’aveva subito “disorientata”; alcuni giorni di grande e sconosciuto trambusto interiore, poi eccola stretta forte a lui, raggiante: perché – incredibile a dirsi – la medesima cosa era accaduta all’uomo! Era stato amore totale; poi lui aveva dovuto lasciare Kobanê, giurandole però di tornare quanto prima.

No, non voleva morire, ma oramai “doveva” in ogni caso: se fosse stata presa viva i jihadisti, com’era loro abitudine, ne avrebbero fatto una schiava sessuale (e senz’altro pure molto contesa, data la sua avvenenza). Estrasse quindi dal kalašnikov il caricatore – l’ultimo rimastole – per contare i proiettili residui: quattro. “D’accordo, Esirîn, d’accordo…”, disse a sé stessa mentre si asciugava il volto dal pianto.

E dunque “pam”, “pam” (beccato un altro bastardo, bene!) e… “pam”. Poi, inspirando forte più e più volte, radunò tutto il proprio coraggio, chiuse i suoi luminosi occhi neri e pregò Allah di assolverla dai peccati commessi, i genitori e le due sorelle maggiori di perdonarle il suo carattere ribelle e infine il suo ora lontano amore per non avergli potuto dare tutto quanto lei desiderava offrirgli. “Da lassù veglierò sempre su di te: che tu possa vivere una vita felice!”, sussurrò nel vento che si era intanto alzato e che un istante dopo voltò bruscamente senso, correndo verso nord.

Dopodiché, respingendo con rabbia i successivi pensieri che già cercavano di dissuaderla, si puntò la canna del fucile mitragliatore sotto il mento e fece subito fuoco. L’ultimo “pam”.

Valerio guardò l’orologio: era ora di scendere, anche perché il giorno seguente sarebbe dovuto partire di primissimo mattino da Crissolo per rientrare a Milano e avere il tempo di preparare, prima del volo serale per Istanbul, il bagaglio e le attrezzature necessarie per la nuova serie di servizi sulla guerra in Siria che l’agenzia di stampa per cui lavorava gli aveva alla fine accordato. Il giornalista, bussandogli continuamente alla porta, aveva infatti preso per stanchezza il direttore, che dal canto suo sotto sotto non sputava su un possibile bis del successo internazionalmente riscosso dai reportages realizzati da quel suo giovane collaboratore durante le cinque settimane in cui era già stato laggiù.

Stavolta però Valerio – segretamente – smaniava di scappare dalla noia della redazione non per la sua passione di raccontare dal vivo il mondo al mondo, quanto per potere riabbracciare la fiera ragazza per la quale aveva perso il sonno quando era avventurosamente arrivato nella Stalingrado del XXI secolo: Kobanê.

Le loro esistenze si erano incrociate durante un rapido briefing sotterraneo con i comandanti curdi mentre sopra, in strada, piovevano granate di mortaio. Bisognava concordare le modalità con cui il giornalista avrebbe affiancato i combattenti peshmerga per documentarne la tenace resistenza ed Esirîn gli era stata presentata come sua guida. Seppure segnato dalla stanchezza e incipriato di fumo, quel bellissimo viso gli aveva tolto il fiato; il taglio maschile della divisa mimetica non riusciva poi a nascondere la figura armoniosa. e decisamente provocante, della ragazza, lungo la cui schiena dondolava una lunga treccia castana.

Tre giorni prima della conquista del “Re di Pietra” (come anche viene chiamato il Monte Viso) il reporter era riuscito a parlarle di nuovo grazie sempre al telefono satellitare di Olaf, un collega norvegese attivo in quel periodo a Kobanê, tirando così l’ennesimo sospiro di sollievo: lei stava bene! Non le aveva però detto che era in procinto di mantenere la propria promessa: voleva infatti farle una sorpresa, per poi riprovare a persuaderla (impresa che però già sapeva impossibile fintantoché i giannizzeri neri non si fossero ritirati) a lasciarsi alle spalle quegli orrori e a seguirlo in Italia, e iniziare qui una nuova esistenza; anche perché era chiaro che sarebbe stato tutt’altro che facile per lui tornare in Siria una terza volta, e che la lontananza –  inevitabilmente – avrebbe alla fine slegato le loro vite.

In effetti cominciare quella storia era stato assurdo! Ma secondo Valerio come le emozioni regalate da una vetta meritano qualche rischio, così per un momento d’amore vero può valer la pena di dovere poi soffrire molto. “La vita è come il mare, chi ha paura di navigare rimane sulla riva a guardare l’orizzonte… e tutto rimane un sogno”, aveva letto da qualche parte.

Desiderava infatti vivere. Ogni singolo attimo. Pienamente, semplicemente.

Sì, era ormai ora di lasciare la cima. Valerio ripose la borraccia e i resti della veloce colazione dentro lo zaino, che richiuse con cura e si caricò poi sulle spalle. Nel frattempo da sud-est era arrivato un vento teso e freddo. “Speriamo non rinforzi” si augurò l’alpinista che non desiderava certo complicazioni ad una discesa già di per sé stessa delicata; poi come ultima cosa, tolti un attimo i guanti, si mise a regolare la cinghietta del casco (durante la salita l’aveva sentita un po’ lasca), quando qualcosa lo distolse però da quell’operazione: ad un tratto, nella fastidiosa corrente d’aria che andava già gelandogli le mani, al giovane era infatti sembrato di sentire delle vibrazioni, delle parole quasi, non intelligibili e che però gli misero dentro una certa inquietudine. “Boh!”, pensò dopo un po’ mentre si decideva – sempre turbato – a rimettere casco e guanti.

In quello stesso momento fu investito da una raffica più violenta; respirandola Valerio avvertì uno strano sapore salato, che ricordava quello delle gocce di pianto. E di colpo il suo cuore intuì, e venne devastato!

Da parte sua, così come s’era palesato, il vento improvvisamente cessò.

Un paio di metri più in là Alberto aveva intanto appena finito di “rifilare” la corda; girandosi quindi verso Valerio per passargliene un capo da legare all’imbragatura, vide che questi aveva smesso di prepararsi alla discesa: se ne stava infatti dritto immobile sui ramponi, con gli occhi spersi sull’orizzonte, bianco in volto.

«Ehi, amico, qualcosa non va?».

Ma il compagno sembrava non udirlo.

«Valerio, tutto bene?» gli ripeté gridando Alberto.

«Il vento…» farfugliò infine quello. «Il vento mi ha detto che lei… non c’è più!».

«Il vento cosa? Ma che cavolo ti sei fumato? E poi… lei chi?» sbottò l’altro, che nulla sapeva di Esirîn.

Un breve silenzio. Poi, voltandosi, Valerio gli rispose tra le lacrime: «Un angelo!».

 

Alberto fiutò che quella discesa sarebbe stata straordinariamente difficile.

 

Avuta da Olaf quella stessa sera la tremenda conferma, Valerio non si recò più all’aeroporto. Due giorni dopo, tra la sorpresa generale, comparve, stralunato, in redazione; al suo capo disse soltanto «mi licenzio» e sparì.

Cambiò mestiere, e con esso città e conoscenze.

Pian piano riprese a fare progetti, ma qualsiasi passo intraprendesse – o nuova montagna affrontasse – Valerio aveva sempre la sensazione, forte, che qualcuno, seppure da molto lontano, lo assistesse. Come un angelo custode.

Lui sapeva bene chi. E ogni volta un sorriso grato e insieme malinconico si dipingeva sul suo volto.

***

Ѐ pressappoco questa la storia del mio nuovo amico.

Per la cronaca, il 26 gennaio 2015 le ultime soldataglie del famigerato “Stato Islamico” si ritirarono – sconfitte – da Kobanê.

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