Racconto di Francesco Liberti
(Terza pubblicazione – 11 dicembre 2020)
Napoli 1990.
Eravamo seduti a casa mia, Via Belvedere era un quartiere del Vomero con vista sul mare, le faceva da sfondo un vico, chiamato “vicolo Belvedere” che era un pezzo di storia radicato nella nostra memoria.
Andai in bagno.
C’era mio fratello che sputava sangue: <<uno, due colpi netti>> e guardava mia madre sconvolta dalla paura.
Le cose andarono per il peggio.
Prima del suo viaggio in un Ospedale di Losanna, ci organizzammo così.
Mio fratello partì con mia madre e con mio zio Rino che era bilingue, parlava “il francese e l’inglese” come madre lingua.
Io, Andrea e mio padre partimmo col treno.
Mio padre era una figura grottesca, fece dieci ore di viaggio in treno senza dire una parola come se fosse in trance.
Andrea che ci fece da conforto con le sue clownerie era un musicista alla Lucio Dalla, sapeva suonare tutti gli strumenti a fiato e più tardi sarebbe diventato un tenore verdiano e pucciniano.
Mio fratello si chiamava Antonio ma <<noi lo chiamavamo affettuosamente Toto>>.
Insomma ci ritrovammo in un ospedale svizzero per la cattiva sorte.
Mio fratello si doveva operare subito.
Ma uno dei dottori fu lapidario-disse: <<Non sono ancora arrivati i soldi sul conto della banca dell’ospedale intestati per Antonio Liberti>>.
<<Niente denaro, niente operazione!>>.
Rispetto agli ospedali italiani e napoletani, l’ospedale svizzero era all’avanguardia, facevano terapia e interventi chirurgici con chirurghi di altissimo livello, ma era carissimo.
I soldi arrivarono da Napoli.
Toto si poté operare.
In ospedale conoscemmo una signora che si chiamava Sanda di origine rumena che ci prestò casa sua e noi da allora la chiamammo <<Santa>>.
Ci raccontò i trascorsi della sua vita: <<Aveva patito la fame da giovane nel regime di Ceacescu e qualche anno fa aveva avuto il nipote, un bellissimo ragazzo, come si evinceva dalla fotografie esposte nel suo salotto, che era stato operato per un altro tipo di tumore diverso da quello di mio fratello e ce l’aveva fatta.
Quando vidi Toto dopo l’operazione nel letto, aveva le ferite inferte sul suo corpo come Gesù nel suo calvario del Golgota, eppure aveva la forza di sorridere e di andare avanti e tutto questo mi dava forza e coraggio per l’avvenire.
Dopo un mese io me ne scesi a Napoli dopo aver passato i miei 18 in quell’atroce circostanza, mio fratello rimase a Losanna a farsi la chemioterapia.
Passarono giorni, mesi, Sanda-Santa si trasferì nel suo appartamento e mia madre e mio fratello presero in affitto un locale più piccolo sito nello stesso palazzo.
Un brutto giorno a Napoli mio padre mi disse che mio fratello si era operato di nuovo.
Allora ci organizzammo con i miei cugini, Emiliano e Fabrizio, ci rasammo a zero i capelli per far sentire meno solo mio fratello Toto che li aveva persi con la chemioterapia, e indossammo giubbotti <<bomber>>, quelli che all’epoca indossavano i naziskin, (=i naziskin erano uno dei movimenti nazifascisti creati dalle destre xenofobe in Europa, ed è inutile dire
che io e la mia famiglia siamo sempre stati e saremo ideologicamente antifascisti e antinazisti).
Ritornammo a Losanna, mio fratello rise di cuore, <<vedendoci si sentiva come a casa>>, <<per l’amore che gli portavamo>>, ci ricordammo tutti le partite di calcio che facevamo da bambini nel parco della Floridiana al Vomero o le partite che vedevamo allo stadio S.Paolo <<che era il tempio di Maradona>>, insomma con quello stare assieme raggiungevamo lo stato del nirvana, della pace interiore.
Eppure dentro di me ero convinto che ce l’avremmo fatta.
Che avremmo superato insieme anche questo tumore che affliggeva mio fratello Toto.
Dopo l’ultima operazione chirurgica i medici dissero alla mia famiglia:<<NON C’E’ PIU’ NIENTE DA FARE>>.
Tornammo tutti a Napoli.
Sanda la Santa donna che ci aveva aiutato in un paese sconosciuto prima che mio fratello si aggravasse ci ospitò una sera nella sua villa a Posillipo, viveva con sua figlia e con sei, sette cani “setter irlandesi”, in passato era stata sposata con l’industriale della Azienda Cirio.
<<Arrivarono le cure alternative da fare>>.
Mia madre e mio fratello andavano in Sila, in Calabria, per fargli fare una siringa al mese che costava un milione di lire.
Terminato quel periodo avevamo lasciato Napoli e ci eravamo trasferiti in campagna a Licola-Giugliano in Campania (NA), dato che il sogno di mio fratello era aprire un allevamento di cane corso e portare avanti la razza col suo capostipite che si chiamava Bjorn ed era un bellissimo cane corso nero che proveniva dagli allevamenti di Malavasi di Mantova.
Non so chi mise sotto le grinfie di mio fratello <<un mago che gli diceva che l’avrebbe salvato>>.
IL suo meccanismo per fare soldi era che più mio fratello si sentiva male, più lui sfuggiva e aumentava il suo tariffario per ritornare. <<Questo era il suo bluff: giocava sulla salute della gente>>.
IL giorno della morte di mio fratello, Antonio lo chiamò prima di spirare, chiedendogli aiuto <<e dicendo vieni qui non mi sento bene, non mi sento bene>>. <<E il mago scappò via dicendogli, mentre fuggiva, preparategli un piatto di pasta>>.
Ora che quell’imbroglione è morto, spero con tutto il cuore che riviva il suo Purgatorio nell’Aldilà perché Dio è giusto con tutti, è ovunque e vede tutto come è scritto negli Atti degli Apostoli.
Questa vicenda si ripete in tutte quelle famiglie che quando gli viene detto che il proprio parente è in stato terminale, si rivolgono alla medicina alternativa o ai maghi truffaldini/sciacalli e/o ai finti sensitivi.
Mio fratello mi morì fra le braccia, io avevo 24 anni e lui 22, “eravamo cresciuti assieme e ci eravamo divertiti assieme”. Io sollevai il suo corpo con l’aiuto di un amico e cercammo di portarlo fuori la villa, da un medico serio che avevamo chiamato, <<MA NON CI FU PIU’ NIENTE DA FARE>>.
E il mago Franco Milani, questo era il nome del delinquente-mago che ora è morto venne pure in chiesa per il funerale di Toto e voleva stringermi la mano, ma io non gliela strinsi.
E la storia finisce così.
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