Racconto di Lucia De Bortoli
(Quinta pubblicazione – 26 agosto 2019)
Se essere motociclista è una passione, fare il passeggero è una vera e propria vocazione.
In taluni casi, un bravo e duraturo passeggero, non è solamente un’appendice stabile del mezzo, ma ha delle mansioni implicite ben precise.
Prima di partire, anche solo per una gita fuori porta, pianifica il viaggio: chilometri, durata, tappe e località da vedere; il tutto cercando di contornare il tragitto con curve, paesaggi isolati e, se possibile, anche sterrato per la gioia dell’autista.
La parte iniziale del percorso inizia con un ritmo lento e uniforme.
Il passeggero assapora la spensieratezza e la libertà. Con fugace voyeurismo cerca nelle case dettagli nascosti: la donna in camicia da notte che stende la biancheria di primo mattino, il bambino che gioca a palla da solo mentre suo padre taglia l’erba, due uomini intenti a tagliare la legna, un gruppo di ragazzi che sta preparando una grigliata con la birra in mano mentre le compagne sono intente ad apparecchiare la tavola.
Nessuno ti nota quando passi in moto, mentre i tuoi occhi scorrono davanti ad una televisione vivente creando innumerevoli telenovele, film e storie.
Nel tuo silenzio, dentro al casco, vedi spezzoni di vite e immagini.
Il rumore del vento e la musica della moto creano una sinfonia per pochi che distrae dalla realtà e allontana i tuoi pensieri.
La prima tappa è superata. Il pilota inizia a scalpitare. Si vedono le prime colline, le prime curve.
Il passeggero è pronto. Piedi piantati sul pedalino, categoricamente sulle punte (quasi unica distinzione tra uomo e donna in moto) e si inizia la vera corsa.
La regola fondamentale per guadagnarsi future gite è “NON DISTURBARE”, non aggrapparsi come un geco, ma tenersi con le mani sulle maniglie posteriori e concentrarsi sulla strada tanto quanto l’autista per prevedere frenate o curve, così da non sbattere il proprio casco sul suo o, peggio ancora, il busto sulla sua schiena.
Tutto questo si può ottenere con estrema abilità muscolare, le gambe si irrigidiscono e, mentre i piedi si piantano sui pedalini, il quadricipite inizia a bruciare quando il gemello mediale è già stremato.
Il bicipite brachiale evita il volo dell’aquilone aquilone alla prima accelerata e il trapezio si ingrossa per evitare di ammaccare il casco.
L’estensore del piede ormai si è arreso, è un tutt’uno con la pedalina. Il grande gluteo inutile continua a sfregare sulla sella e i tendini della mano sono tesi come corde sfibrate.
E si arriva anche alla seconda tappa, una pausa di un’ora circa. Il tempo di riempire lo stomaco e riappropriarsi dei muscoli del proprio corpo.
Il casco lascia impronte quasi indelebili per cinque minuti fino a quando anche le guance smettono di sembrare un selfie a cuore.
Pronti per il ritorno.
Il rientro è quasi più difficile, il corpo già provato dagli sforzi dell’andata ora deve rimanere un tutt’uno con il bauletto posteriore perché il pilota punta dritto a casa come un cane abbandonato.
Corre, corre e corre.
Non esistono case, paesaggi, odori e profumi. Sono tutte cose già viste.
Ora il vero protagonista e conduttore è la moto stessa. È lei che comanda, che guida verso un punto all’orizzonte. Le curve diventano dritte piegando come una nave in tempesta e nei tornanti si fanno i cambi di mura. Il corpo si irrigidisce ancora di più, lo sguardo è fisso verso un punto qualsiasi davanti, non ha importanza quale, in ogni caso sparirebbe in pochi secondi.
Più ci si avvicina a casa, più le strade sono conosciute e più la sicurezza prende il sopravvento sulla prudenza.
Manca poco ormai.
Arrivati a casa il pilota si toglie il casco, lascia il giubbotto sul divano e si fionda verso il frigorifero per una birra rigenerante.
Arrivati a casa il passeggero si toglie il casco, lascia il giubbotto sul divano, bacia la terra ferma e si fionda verso la cucina per prendere la birra dalle mani del pilota…
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