Racconto di Francesco Castellucci
(Prima pubblicazione)
Tenevo il bagaglio in stretto contatto col mio corpo, la gamba lo premeva al sedile perché non invadesse il sedile vicino. Riuscii a dormire per due ore, poi attraversai le stazioni guardando il loro nome scorrere sempre più piano dal finestrino. Viaggiavo nello stesso modo da mesi, una volta alla settimana, il giovedì, ritornavo a casa di L… Ora era diverso. In tasca avevo le chiavi che L. mi aveva lasciato perché usassi la sua casa in sua assenza. Mi ritrovai come acerbo in un appartamento che conoscevo ma che non riuscii ad abitare per quell’assenza che ne sporcava le pareti. Il bagaglio fu scosso da un ragazzo in abito blu che si apprestò a ripopolare il sedile a me vicino. “Nessun problema” dissi perché rispondessi alle sue scuse, “nessun problema”.
Stappai la birra ormai calda che mi ero portato dietro dalla stazione di partenza, ne bevvi un sorso e poi un altro affinché finisse in pochi minuti. Ero solo davanti al televisore spento, osservavo il giradischi riflettere la luce che lo specchio alla parete rilanciava riflettendo la lampada vicina al sofà. Correvo in giardino, raccoglievo le feste di Arlem e ne riportavo in casa le impronte. Stavo per parlare ma tacqui perché il silenzio non venisse ferito da una banale distrazione. Non resistevo dall’idea di avvicinarmi all’area che più le assomigliava, ma desistevo, nulla in sua assenza le assomigliava abbastanza perché la sentissi lì presente. Quando squillò l’applicazione al computer lasciai che i minuti scorressero prima di chiudere il monitor.
Riconobbi le ultime stazioni che si susseguivano durante la fase finale del viaggio, decisi di prepararmi con anticipo, raccolsi il bagaglio e mi scusai col mio vicino, ero pronto per procurarmi una bici ed attraversare il quartiere. Quando inserii la chiave era ormai buio, le lampade chiare accanto al lettone mi fecero strada fino alla scrivania. In fretta preparai un tè e sedetti per ore a guardare il soffitto.
Il venerdì successivo lasciai l’appartamento di buon mattino e girai per ore tra i quartieri vicini, alla ricerca di un modo di vivere che fosse completamento mio; toccai le mie risorse in tasca e le trasformai in un pranzo di strada da tre pietanze a base di formaggio. Attraversai due vialoni prima di ricordarmi di una vetrina che avevo deciso di visitare la settimana prima, stoppai la bicicletta sul marciapiede, mi diedi un’occhiata e accettai l’invito del giovane che mi attendeva all’interno.
Fui a casa dopo le otto, decisi cosa ascoltare giusto il tempo per ricominciare a dormire sul divano.
Alle dieci il computer lanciò i suoi segnali nella penombra dell’appartamento, raccolsi l’invito e il cuore iniziò il suo viaggio pazzesco lungo i percorsi temerariamente calmi del mio parlare. Chiusi il monitor solo il mattino successivo, dopo aver preparato i biglietti elettronici e l’abbonamento settimanale per i servizi dell’area metropolitana.
Mi spaventava l’idea che fosse domenica in un posto in cui faticavo a non sentirmi incluso a scambio di equivoci sul mio essere sociale. Qualcosa sarebbe accaduto, così mi ricomposi e replicai il mio giro in bicicletta. Una famiglia nei paraggi metteva all’asta gli oggetti del garage in occasione del ritorno della figlia, a casa dopo anni con una bambina da crescere.
Quando ripartii per S. non seppi non immaginarmi lì, in un salotto non conosciuto con un bambino in braccio ed una splendida L. che ironizzava sul mio non-essere.
Splendeva in un vestito grigio, per la luce del sole che oltrepassava le tende azzurre del balcone, e che la illuminavano da dietro, il suo sguardo fisso su noi due, poi la stanza cambiò ordine e colori e ripresi a riconoscere gli oggetti che avevo difronte, ancora mezz’ora in quel vagone e sarei arrivato.
[…]
Mi risvegliavo continuamente in un solito vagare tra sogno e veglia. I ricordi che mi portavo dietro raccoglievano il terrore che avevo avuto negli anni ormai lontani dalla memoria, e avevano ormai tutti un distintivo puzzo di violato, di oltraggiato, dell’acerbo macerato alla luce del sole.
Pensavo che non mi rimaneva che osservare l’ansia e la paura che ancora riuscivo a riconoscere negli altri. Il mio sarebbe stato un problema a parte, una questione non risolvibile, o meglio un problema mio alla mercé di chiunque sentisse il bisogno di comunicare qualcosa.
Ero vincolato agli orari di lavoro da ormai tre anni. Non riconoscevo il momento per ricominciare con l’approfittare delle occasioni che sembravano ancora concesse. “Fila dritto! E io filo dritto.”
Era quanto diceva di sé L. ogni volta che le nostre mansioni ci portavano a incrociarci. E filavo dritto anch’io. Il carico tra le braccia o sul carrello e poi pronti per la sistemazione sugli scaffali. Ero vicino al mollare e L. lo aveva capito guardandomi da una distanza modesta durante l’ora del caffè. Una pacca sulla spalla e null’altro che un sorriso. A pranzo mi disse che avrei potuto concedermi una pausa, almeno fino a quando tutto non sembrava fosse tornato alla normalità, che mi avrebbe offerto il suo supporto in qualsiasi momento che avrebbe filato dritto anche per me. Quel pomeriggio non mi rivolse che sguardi di comprensione eppure io non riuscivo a capire cosa non andasse.
Continuai a lavorare ancora qualche settimana, poi decisi per le ferie concesse ed elargite con un certo clamore.
Iniziai a risvegliarmi sulla poltrona del salotto, dopo pranzo, ogni giorno aspettando che si facessero le cinque. Mi informavo avidamente, seguivo i TG e gli approfondimenti. Uscivo per le commissioni che mi si infilavano tra le mani ogni volta che L. ritornava dal lavoro. Imparai la geografia dei quartieri in pochi passaggi, guardavo dal finestrino la pioggia sulle panchine, continuavo ad amplificare la realtà inventando storie possibili sulle suggestioni che avevo durante l’attraversamento. Cercavo in ogni modo di assecondare e combattere lo stordimento che seguiva ogni risveglio. Dormivo spesso da solo nella stanza vuota che L. aveva destinato agli ospiti.
Il tragitto in bici diventava il motivo portante di tutta la giornata, ogni tanto, quando c’ era il tempo partivamo in auto per destinazioni di avventura campestre. Con le bici legate dietro sapevamo ancora guardarci come quando non mostravo nulla da temere. Eppure il rischio di un tracollo psichico era chiaro a entrambi. Quando di mattina ci salutavamo io avevo già fatto la mia comparsa nel suo lettone, dopo la doccia e un risveglio mattutino seguito dal caffè che preparavo per entrambi con passione meccanica.
Mi guardava sapendo che un giorno avrei avuto bisogno di lei più di quanto non sapessi confessarle, questo frenava le sue richieste, generava in me senso di colpa, stupidità e una frustrazione che imparammo ad annichilire. I discorsi si fecero più densi, i sentimenti più puri ci ritrovammo al telefono a disdire ogni nostro impegno. Fu un sodalizio temporaneo, come la natura di ciò che imparammo ad affrontare, le sette del mattino arrivarono a lungo seguite dalle mie ricostruzioni oniriche, le sue ore erano segnate dal lavoro.
Imparavo ogni mese da capo, rapportarsi con gli uffici e i negozi per gli acquisti divenne difficoltoso, e io mi desolavo al fatto di non aver messo da parte nemmeno un soldo.
La mia valigia era pronta per un ricovero improvviso, non ce ne fu mai bisogno ma non era quanto ci aspettavamo.
-°-
https://www.mondadoristore.it/Incipit-Francesco-Castellucci/eai978883137753/
Scrivi un commento