Racconto di Neris Casteller

(Prima Pubblicazione)

 

 

Era stato un inverno lungo, buio e gelido – come lo erano tutti gli inverni in Groelandia – e ora il cielo stava lentamente diventando più luminoso, l’aria s’era fatta tiepida e si annunciava la stagione estiva.

La tundra si stava colorando del verde dei licheni, dei muschi e delle erbe nuove che la ricoprivano. Sopra l’acqua non aleggiava più quella coltre di vapore che si confondeva con il bianco della neve tutt’intorno dove mare e terra sembravano un’unica distesa candida, baciata da un cielo metallico attraversato da bufere improvvise.

Igalliguq non era riuscito a riposare aspettando che arrivasse l’ora prefissata. Era stato in preda a un’agitazione che lo aveva fatto alzare più volte dal letto per osservare il chiarore del cielo dalla minuscola finestra della sua camera, da dove durante l’inverno vedeva nitido l’argenteo e intermittente luccichio della Stella Polare. Alla fine la stanchezza aveva preso il sopravvento e le palpebre gli si erano improvvisamente abbassate sugli occhi: era piombato in un sonno profondo, abitato da strani esseri, da orsi e renne dalle enormi corna ramificate. All’improvviso gli era comparsa davanti lei, la balenottera azzurra, che lo fissava attonita: un’espressione che gli era parsa triste, quasi di supplica. Aveva sentito risuonare in lontananza la lunga vibrazione del tamburo, un suono che sembrava provenire da un altro mondo. Era l’anima del pianeta, l’inua che viveva in tutto, come la chiamavano gli anziani del suo villaggio.

Gallijuq s’era ritrovato seduto sul letto, madido di sudore; s’era guardato attorno, spaesato, non del tutto convinto di trovarsi al sicuro. Il battito del cuore aveva lentamente ripreso il normale ritmo dopo essersi reso conto d’aver vissuto un magico ed incredibile sogno, così veritiero che sentiva ancora addosso le forti emozioni provate.

«La nostra mente è come una grande tenda dove ci sono tutte le cose che ci appartengono, le più care… » gli aveva detto sua madre un giorno che le aveva chiesto perché il nonno diceva sempre che i sogni erano molto importanti. Secondo lui gli spiriti portavano i loro messaggi durante il sonno. Infatti, quel fantastico sogno racchiudeva qualcosa di tutti quei racconti che aveva udito da lui durante la sua infanzia, quando notte e giorno sembravano uguali e il freddo li costringeva a trascorrere lunghe ore al riparo. Erano storie di battute di caccia ai narvali – gli unicorni del mare –, storie di sciamani, di divinità della natura che popolavano la vita dei suoi antenati Inuit.

Con tenerezza ripensava ai piccoli occhi che brillavano incastonati dentro al viso rugoso dalla pelle spessa, incartapecorita, segnata dall’inclemenza del freddo e del vento mentre, gesticolando, ripercorreva le antiche gesta. Lui stesso ci aveva partecipato, insieme a tutto il villaggio. Ora la caccia era molto più semplice e solo pochi continuavano a tenere viva la memoria di un popolo che stava lentamente perdendo la propria identità comunitaria.

«Grande, maestosa, la balena stava davanti a noi… ci guardava altera e ci invitava al combattimento. Era pronta al supremo sacrificio» diceva, come se la caccia alle balene fosse stato un sacro rito.

Lo aveva capito più tardi, quando era cresciuto un po’, che quella pratica che poteva sembrare crudele era vissuta invece con grande rispetto, in quanto gli uomini erano consapevoli d’essere i destinatari di un inestimabile dono: il dono sacrificale della madre Terra per i suoi figli. Era praticamente una storia d’amore ed una lotta alla pari.

«Ma non avevi paura nonno?» Gli aveva chiesto una volta.

«Figliolo, certo che avevo paura, era molto rischioso… Ma eravamo anche felici ed orgogliosi dopo una battuta di caccia. Ci sarebbe stato cibo per sfamare le nostre famiglie. Il nostro popolo ha sempre rispettato la natura, non ha mai ucciso per il gusto di uccidere». Igalliguq ci aveva letto un leggero disappunto sul suo volto mentre pronunciava quelle parole. Infatti, ogni volta che vedeva all’orizzonte una grande nave da pesca scuoteva la testa e se ne andava borbottando tra sé.

«Gli spiriti sono arrabbiati con gli uomini» ripeteva come una cantilena, battendo ripetutamente le mani sulle ginocchia e dondolandosi sulla vecchia sedia costruita appositamente per lui.

Il ricordo del nonno lo aveva rattristato, si era riaperta quella porticina in fondo al cuore che custodiva le perle più belle della propria infanzia. Oggi in particolare avrebbe voluto abbracciarlo forte, dirgli “sono pronto a compiere il mio viaggio” e ringraziarlo per avergli trasmesso quella sapienza antica, profonda, che riempie di significato la parola uomo.

Ora, che pure lui era diventato un uomo, sentiva ardere in petto il fuoco dell’avventura, sentiva incontenibile il desiderio di superare l’orizzonte, di andare oltre. Soprattutto era forte il bisogno di dimostrare a se stesso che riusciva a cavarsela da solo ed affrontare qualsiasi difficoltà. Il suo mondo fatto di acqua, ghiaccio e cielo lo stava aspettando.

Si era vestito lentamente, con la diligenza di un antico guerriero che indossa i paramenti prima della battaglia: ogni indumento aveva la propria funzione, ogni piccola cosa era necessaria e determinante per poter raggiungere l’obiettivo prefissato. Sua madre lo aveva baciato, accarezzato, con una dolcezza che esprimeva tutte le parole rimaste dentro al cuore. I suoi occhi stretti e neri come la pece sorridevano disegnando sottili righe sugli angoli, come raggi di sole che li facevano splendere.

 

Igalliguq prese la sacca di pelle di foca e se la mise in spalla, salutò con un verso acuto i suoi due lemming che lo guardavano curiosi da dentro la loro gabbietta costruita con pezzi di legno lasciati sulla costa dal mare. S’incamminò con passo lesto per il sentiero ancora ghiacciato, costeggiato da bassi arbusti e delicati fiori bianchi ondeggianti, verso il punto da dove sarebbe iniziata la sua avventura. Si tirò sugli occhi il berretto bordato di pelliccia per ripararsi dal vento fastidioso che gli intirizziva le orecchie, ci sarebbe voluta ancora qualche ora prima di sentire il tepore del sole riscaldargli il corpo. Non temeva il freddo, era di corporatura robusta, abituato a temperature ben diverse da quelle, ma quel leggero brivido che sentiva sulla pelle non aveva nulla a che vedere con la frescura mattutina: era qualcosa che sgorgava da dentro, dalle proprie profondità, dall’inconscio.

In lontananza la sagoma del suo umiak si disegnava contro il cielo terso, interrompendo le lievi e indefinite linee del paesaggio. Quando gli fu davanti ebbe un sussulto, emozioni contrapposte si fondevano in una strana danza, un continuo susseguirsi di stati d’animo: era arrivato il momento atteso ma ora non era più tanto sicuro che partire fosse stata la cosa giusta da fare.

Ci aveva lavorato tutto l’inverno per costruire quella imbarcazione come si deve: la lunghezza era tre volte la propria altezza – come gli aveva insegnato suo padre – per poter contenere il minimo indispensabile, il materiale lo aveva scelto con cura ed aveva avuto l’approvazione dei più esperti. Evidentemente erano stati tutti quei discorsi sentiti sui ghiacciai che si stavano sciogliendo con una velocità incredibile che gli avevano messo addosso una certa ansia. Il suo insegnante non faceva altro che parlare di questo, ma lui dava più credito a ciò che diceva la sua gente che non aveva bisogno di capire le cose dai libri. Tutti se ne erano accorti che qualcosa stava cambiando.

Una settimana non era poi tanto, ma era la prima volta che si misurava con la natura, da solo, ed era ben consapevole di quanto potesse essere pericoloso sottovalutarla. Ebbe la sensazione che suo nonno fosse lì, vicino a lui, che lo stesse rassicurando: magicamente sparì ogni timore, sentì il coraggio riempire ogni sua incertezza.

Con forza spinse il kayak in mare, con un balzo ci salì sopra, roteò il busto e con un gesto repentino arpionò l’acqua. Lentamente prese il largo e si trovò immerso in un silenzio profondo, dentro al bianco e all’azzurro. Dietro di lui il tranquillo increspare dell’acqua, il lieve gorgoglio come canto di sirene che saliva dai fondali per fargli compagnia.

Pezzi di ghiaccio non del tutto sciolti galleggiavano: piccole zattere dove le foche potevano riposarsi godendo del tepore del sole lasciandosi trasportare dalla corrente. Aveva navigato vicino alle coste per qualche ora e poi s’era inoltrato tra i canali d’acqua formati tra il ghiaccio. Una colonia di gabbiani fulmaro s’era alzata in volo in cerca di cibo lanciando stridule grida, molto probabilmente anche disturbati dal suo arrivo.

«Buon segno, qui mi sarà facile pescare qualche piccolo pesce» aveva pensato vedendoli poi dividersi avidi il cibo. Per poter accendere un fuoco e cucinarlo aveva portato con sé una grande quantità di grasso di foca. A lui sarebbe bastato poco, non aveva grandi necessità, sarebbe potuto resistere benissimo alcuni giorni senza dover cacciare grazie alla carne di foca essiccata che si era portato appresso. Per gli Inuit la caccia aveva sempre rappresentano la principale fonte di sostentamento e quando, per un periodo, fu loro vietato di cacciare le foche subirono un notevole danno.

Incastonato tra due pezzi di ghiaccio aveva notato qualcosa di colorato, apparire e scomparire, tra il leggero moto ondoso. Un gabbiano s’era avventato su quella strana preda cercando invano di ridurla a pezzettini da ingoiare. Igalliguq si avvicinò per vedere di che pesce si trattasse e con la punta della canna riuscì ad estrarlo: era una bottiglietta di plastica con una scritta indecifrabile, di un rosso e blu ormai sbiaditi dal lungo permanere in mare.

«Caspita! Un pesce così non l’ho mai visto» aveva esclamato pensando a quanti oggetti strani i pescatori riportavano a riva. Si ricordava in particolare di qualcosa di gommoso – non certo un organo interno – che era stato trovato in pancia ad uno squalo, con la cui carne di solito venivano nutriti i cani da slitta. Qualcuno aveva ipotizzato che fossero rifiuti provenienti da pescherecci o incrociatori, dalle grandi baleniere, mentre i più anziani erano convinti che fossero discesi dal cielo o da altri mondi sconosciuti.

Quella notte – se notte si poteva chiamare – si potevano scorgere le costellazioni dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore. Il rumore di un blocco di ghiaccio che si era staccato e caduto dentro al mare aveva rotto il grande silenzio: era uno dei tanti iceberg che aveva incontrato nel suo percorso. Igalliguq aveva navigato per tutto il giorno ed ora, seduto sul terreno roccioso vicino all’insediamento Kangerlussuaq , stava godendo del più meraviglioso degli spettacoli, una danza di sfumature surreali che toglievano il fiato : l’aurora boreale. Il nonno gli aveva raccontato che le aurore boreali erano gli spiriti dei bambini morti prima di nascere e, anche se ora non ci credeva più, gli sembrava la più bella spiegazione che potesse esistere. Anche se la versione scientifica degli ioni provenienti dal sole che si scontrano con gli atomi dei gas rarefatti gli destava un certo stupore, quella del nonno era di certo la più rassicurante e la più poetica.

 

Erik e Ilka erano seduti al tavolino della locanda, assieme ad altre quattro persone. Non sembravano turisti, anche perché ancora non se ne vedevano in giro in quel pezzo di terra in capo al mondo: era soltanto l’inizio della stagione calda e pochi si avventuravano in luoghi poco ospitali. Evidentemente quel gruppetto faceva parte dei quei pochi temerari.

«Tremendo! Non avrei mai pensato ci fosse una miriade di frammenti di plastica imprigionati nel giacchio…» aveva esclamato Ilka, la ragazza dai capelli biondi cenere legati a coda di cavallo.

«Beh, cosi ti aspettavi? Nell’Artico si trovano alcuni dei maggiori depositi di plastica del pianeta. Però ti confesso, pure io sono sbalordito. Di frammenti così piccoli non ne avevo mai visti».

Erik s’era alzato per andare al banco ad ordinare qualcosa da bere. Igalliguq incrociò il suo sguardo, si scusò per averlo sbadatamente urtato mentre si avvicinava e gli sorrise mostrando una dentatura perfetta che risaltava sulla pelle ambrata. Erik lo invitò al loro tavolo per una istintiva simpatia che aveva subito provato nei suoi confronti.

«Sei giovane. Abiti qui?» gli aveva chiesto squadrandolo dalla testa ai piedi.

«Ho diciannove anni. Mi chiamo Igalliguq» aveva risposto con un leggero imbarazzo. Tutti gli occhi erano puntati su di lui, pure quelli della giovane ragazza bionda che erano di un azzurro indescrivibile. Dopo qualche minuto erano diventati amici.

«E così te ne vai in giro solo in kayak…».

«Già, so badare a me stesso. Mi sono allenato molto».

«Magari hai incrociato Moby Dyk!» aveva esclamato visibilmente emozionata Ilka. L’ammirazione che provava per quel ragazzo era evidente, oltre a simpatico e carino le sembrava terribilmente coraggioso.

«Noi siamo l’equipaggio della KronprinsHaakoo, una nave da ricerca. Analizziamo la salute di questo posto. Quest’anno i ghiacci si stanno sciogliendo più del solito…è stato raggiunto il picco del 56,5. Troppo, non va bene».

“Il livello dei mari nel 2100 potrebbe innalzarsi di molto» le fece eco Erick  che sta scrivendo in un notes formule strane.

«Poi, la plastica… nell’ultimo decennio sono state documentate alte concentrazioni di rifiuti in plastica in tutto l’Artico: sulle coste, nei sedimenti di acque profonde, nel ghiaccio marino e nelle acque superficiali».

«Oh, ne ho trovata pure io, tra i ghiacci, tra i gabbiani».

«Certo, e questo è terribile. Devi pensare che abbiamo trovato micro e nano plastiche – cioè piccole particelle di materiale plastico – nei pesci e nel ghiaccio, frammenti portati perfino dalla neve».

«Dalla neve? Allora i nostri vecchi hanno ragione… sono convinti che provengano dal cielo» aveva sentenziato Igalliguq, stupefatto da quello che stava udendo.

«I vecchi hanno sempre ragione. Sono saggi» gli aveva risposto Ilka infilandosi il grosso berretto di lana.

«Vieni a trovarci sulla nave, tra qualche giorno partiamo. Abbiamo finito il nostro compito per ora» aveva continuato. Quel ragazzo così interessato non lo avevano incontrato per caso, per Ilka nulla accadeva per caso.

«Ci verrò» promise. Non era soltanto per gli occhi grandi che sembravano due pezzi di cielo di Ilka che aveva accettato quell’invito, ma era stata soprattutto una frase che lei aveva pronunciato che gli si era conficcata nel petto come un coltello: “questo paradiso sta morendo” aveva detto. Ed era vero, aveva letto dentro a quegli occhi una grande tristezza, aveva percepito la sofferenza del suo cuore e l’amore per quella terra. Inoltre se lo dicevano degli studiosi non poteva che crederci.

Non avrebbe permesso che ciò potesse accadere. Era stata una percezione improvvisa, come un fulmine che illumina il buio e fa emergere una bellezza celata: lui era un Inuit, il suo spirito era in simbiosi con la natura, avrebbe fatto il possibile per salvarla.

«Sai, abbiamo bisogno di ragazzi volenterosi che fanno questo mestiere» gli aveva detto Erick mettendogli una mano sulla spalla.

Si sorrisero e si abbracciarono dandosi appuntamento al giorno seguente.

 

Sulla nave c’erano una trentina di persone che si dedicavano a vari compiti. Ilka gli stava spiegando il loro lavoro che si svolgeva tra microscopi che portavano in evidenza un mondo sconosciuto, per qualche verso affascinante. Almeno così era sembrato a Igalliguq che non aveva mai visto un laboratorio.

«Ragazzo, vieni. Appoggia l’occhio qui, guarda» gli aveva detto un omone alto, con una barba brizzolata e pochi capelli in testa.

«Che vedi?» gli aveva chiesto con un’espressione cordiale, come se lo conoscesse da sempre.

«Polvere colorata» rispose quasi incredulo Igalliguq.

«Ecco, appunto, polvere colorata. Tu non ci crederai ma questa è plastica, plastica intrappolata nel ghiaccio». Mentre gli parlava il suo sguardo era intenso, come se gli stesse rivelando una terribile verità.

«Ed è grave, credo…».

«Gravissimo ragazzo, tu non puoi immaginare quanto. E sai cosa significa che una bottiglia di plastica dopo ben 450 anni si è degradata? Significa che il polimero si è depolimerizzato, per cui le molecole che prima formavano una catena di monomeri sono slegate tra di loro e fluttuano singolarmente nelle acque venendo scambiate da molti animali per cibo».

«Praticamente la plastica rimane per sempre» pensò a voce alta Igalliguq che, non nonostante il linguaggio tecnico incomprensibile, aveva colto il messaggio.

«E voi fate questo lavoro? Sempre?» gli aveva chiesto Igalliguq guardandosi attorno.

«Siamo gli angeli del pianeta… mi piace definirci così. O forse siamo solo dei pazzi, dei pazzi che sperano di proteggerlo. È qui che si capisce se il pianeta è malato» disse Il dottor Lars inarcando le sopracciglia.

Ad Igalliguq gli si illuminarono gli occhi, pure lui voleva diventare un angelo, pure lui amava tanto la sua terra.

«Ragazzo, la plastica sta soffocando tutti i mari» aveva continuato scuotendo il capo. Per un istante Igalliguq gli sembrò di vedere l’espressione sconsolata di suo nonno quando se la prendeva con il genero umano.

 

La nave diventava sempre più piccola mentre il kayak si allontanava veloce e silenzioso: Erik e Ilka, che dal ponte agitavano le braccia in segno di saluto, erano ormai due puntini lontani e improvvisamente scomparvero dalla sua vista.

Igalliguq, dentro al suo kayak, stava ripensando allo strano sogno che aveva fatto prima di partire, ora riusciva a comprenderne il significato. Suo nonno aveva ragione: il Grande Spirito gli aveva preannunciato in un certo senso il suo futuro, ciò che avrebbe potuto fare se teneva aperto il cuore. Sarebbe andato in Norvegia a studiare e un giorno ci sarebbe stato pure lui in una di quelle navi.

«Te lo prometto nonno. Sarai orgoglioso di me» aveva gridato alzando lo sguardo al cielo. Una leggera brezza s’era alzata: una carezza, un bacio, una benedizione portata dal vento.

Guardò la distesa blu del mare. Una colonna di vapore alta circa dieci metri uscì improvvisa dalle sue profondità: la balenottera azzurra inarcò il suo dorso mentre espirava l’acqua e s’immerse nuovamente scomparendo.

Igalliguq sorrise, pensò che il suo viaggio era appena iniziato.

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