Racconto di Antonella La Frazia

(Seconda pubblicazione)

 

Ada, con la sua veste nera e lunga e il fazzoletto legato alla nuca, era china sulla tinozza per lavare quei quattro stracci che aveva. Si fermò quando sentì arrivare suo marito e il fattore di don Vito. Si tirò su tenendosi la schiena dolente. Si voltò verso di loro asciugando le mani sul grembiule e guardandoli a lungo.

Era magra di fame e non di corporatura, i capelli neri raccolti tirati alla nuca, sempre nascosti nel solito fazzoletto le mettevano fuori un viso scavato, con zigomi pungenti e occhi neri infossati.

Giovannino, suo figlio più grande, era seduto sul gradino della porta, con gli occhi scuri, seppur annacquati e gonfi di lacrime. Aveva il moccio al naso che tentava di asciugare col palmo delle mani impastandone la faccia.

Dal suo viso sottile e sporco, rigato dai solchi delle lacrime, si notavano spuntare due orecchie, che parevano enormi in confronto al resto della faccia, per i capelli quasi rasi. Portava un paio di pantaloncini corti e logori, da cui uscivano due gambette secche e coperte di graffi e sbucciature tipiche dei bambini e una maglietta piena di toppe e rammendi.

Qualche giorno prima era venuto col calesse don Vito stesso per vedere il vitello.

Era sceso mantenendo in mano il frustino, come se volesse comandare anche loro come faceva col cavallo. Era vestito in tenuta da stalla, con dei grossi stivaloni, in cui erano infilati i pantaloni scuri e una camicia bianca aperta al collo, maniche risvoltate per il gran caldo. In testa un cappello di paglia e all’angolo della bocca un mezzo sigaro spento, tenuto lì per vezzo. Dovevano vendere l’animale perché avevano accumulato troppi debiti.

Avevano lavorato come muli un’intera primavera, dal più grande al più piccolo. Appena iniziò il caldo si erano ammazzati per portare un po’ d’acqua alle piantine germogliate da poco. Andavano e venivano dalla fontana con secchi e pentole. Era un andirivieni continuo, si consumavano per quella strada, sotto il sole.

Ma non bastò, la stagione era stata molto secca, solo il grano era cresciuto bene, alto e dritto in quel fazzoletto di terra che lavoravano come coloni. Era già dorato e dovevano mieterlo a giorni, quando una violenta grandinata aveva distrutto quasi tutto il grano e quel po’ di altra roba che era germogliata.

Quel pomeriggio un refolo di vento più fresco, aveva portato da lontano l’odore di terra calda bagnata e poco dopo il cielo si era rabbuiato all’orizzonte, in un’onda che cresceva velocemente. Le prime gocce, grandi e fredde evaporavano sulla terra e da lontano si udiva il ribollire dei tuoni.

La mamma di Giovannino si tuffò fra il grano con la falce e la roncola in mano e le gettò nel terreno formando una croce e recitando preghiere e malie antiche, figlie delle superstizioni, che erano le uniche speranze rimastele per evitare la grandine. Mentre il padre bestemmiava sempre lo stesso Dio di sua moglie.

Invano entrambi.

Il padrone aveva preteso comunque la sua parte, anzi si lamentava di averci perso il guadagno, come fossero stati loro a far grandinare. Non restò abbastanza grano neanche per sfamare i loro quattro figli.

Avevano accumulato debiti, prima per le sementi e poi per il cibo, oramai nessuno faceva più credito.

La vendita del vitello era l’unica risorsa rimasta, non avrebbero voluto venderlo così piccolo, avrebbero ricavato di più se fosse cresciuto, per questo motivo non fruttò molto.

Don Vito era furbo, sapeva della loro disperazione e ne approfittò per fare un buon affare.

Palpò l’animale, ne considerò la muscolatura, gli aprì la bocca per controllare i denti, cercò di sminuire il valore della bestia per pagarla meno. Più di una volta fece finta di girarsi e andare via, perché il prezzo richiesto era troppo alto, poi rilanciava con un prezzo ridicolo, per poi rialzarlo giusto di un po’ visto il rifiuto categorico dei venditori.

Alla fine lo prese quasi alla metà del prezzo reale.

Ora era giunto il momento di consegnare il vitello, il fattore era venuto a prenderlo e staccarlo dalla madre e da Giovannino che l’aveva visto nascere e l’aveva accudito per oltre tre mesi.

Il bambino in lacrime si alzò e abbracciò la madre, affondando il viso nel suo grembo, mentre la donna gli accarezzava i capelli. Il padre, passando lo afferrò per il braccio e lo trascinò con sé, voleva che suo figlio indurisse il carattere e non si comportasse come una femminuccia. Giovannino lo seguì docile, continuando a singhiozzare e guardando la madre in una inutile e muta supplica.

La madre li seguì, come una cagna a cui avessero trascinato via il cucciolo.

Il fattore entrò nella stalla: era un uomo grosso dall’adipe gonfio e teso come un tamburo e dalle braccia forti, abituate al lavoro duro. Il viso segnato dalle rughe che il sole dei campi aveva scavato e un paio di grossi baffi grigi, aveva schiacciato in testa un cappellaccio frusto.

Legò il vitello, cercando di tirarlo fuori dalla stalla, con tutta la forza che aveva. La madre del cucciolo si voltò emettendo un muggito forte e lunghissimo che sembrava quasi un ululato, cercava di girare la testa verso il cucciolo ma era stata legata, i suoi occhi erano due sfere nere, sgranati di terrore. Il vitello piangeva, puntando i piedi per non allontanarsi dalla madre, anche lui con lo sguardo gonfio di paura.

Gli occhi dei due animali s’incontrarono, umidi, spaventati. Si guardarono per interminabili minuti disperati, finché il fattore non riuscì a portare quasi di peso, il vitello fuori.

La mucca continuava il suo straziante muggito e il cucciolo le rispondeva dall’esterno finché non fu più possibile udirlo. La donna si coprì le orecchie con le mani e corse nei campi piangendo, s’inginocchiò fra l’erba, si raggomitolò con le mani sul viso per non vedere quel mondo che vendeva cuccioli.

Ripensò a qualche settimana prima, al giorno dell’Assunta, quando suo marito aveva portato Giovannino a Benevento, non certo per la festa, ma al mercato dei valani. Aveva deciso che il più grande dei suoi figli dovesse cominciare a rendersi utile.

Si erano recati in Piazza Orsini proprio accanto al Duomo e rimasti fermi sotto il sole, insieme a tanti altri ragazzini, sistemati lì in fila, in mostra.

Giovannino guardava lo spazio accanto a quella chiesa grandissima, pieno di bambini, ragazzi, contadini, tutti riaggiustati alla meglio, con abiti ricuciti e puliti, le scarpe impolverate con cui molti non sapevano camminare, perché abituati ad andare scalzi. Tutti come cavalli alla fiera, scottati dai raggi roventi, con l’odore del sudore che mandava zaffate acide appena ci si avvicinava.

Anche suo padre gli aveva messo una giacchetta riaggiustata alla meglio dalla madre, in cui comunque ci si perdeva, per farlo sembrare più adulto. Lui stesso indossava il vestito buono, quello di quando si era sposato, l’unico che avesse. Ogni volta che si avvicinava qualcuno a guardare il ragazzo si toglieva il cappello dal capo e lo stringeva fra le mani in segno di rispetto.

Erano restati lì per ore ad attendere qualcuno che volesse acquistare il bambino per un anno o due, con la benedizione di Dio, per farlo lavorare come schiavo nei propri poderi.

I signori benvestiti, con i pollici nei panciotti gonfi, con vistose catene d’orologio andavano da un lato all’altro dell’abbottonatura e i cappelloni che ombreggiavano il viso. Passavano con aria di indifferenza e superiorità, chiacchierando allegramente fra loro e lo toccavano, lo palpavano, soppesavano ogni muscolo come si fa con la carne dal macellaio, gli tastavano finanche i genitali.  Giovannino si accucciava dietro suo padre, rosso di vergogna, ciononostante gli aprivano la bocca per guardare i denti e alcuni mancavano ancora, perché lui aveva solo otto anni e non li aveva cambiati tutti.

Forse, per questo motivo restò lì per diverse ore, fino a che uno fra i tanti si decise a comprarlo, per qualche sacco di grano e pochi soldi, affermando che non valeva molto perché era troppo piccolo e gracilino. Era un tipo allampanato, vestito di bianco, con un odore di sigaro che si mischiava a quello della lozione dopobarba, con le mani piene d’anelli ed i piedi grossi, da far tremare Giovannino, che già sentiva il dolore dei loro calci.

La donna in lacrime rannicchiata sulla terra, pensava che domani sarebbe stato l’otto settembre e sarebbero venuti a prendere suo figlio e l’avrebbero portato via. Anche lei lo avrebbe guardato partire e lui si sarebbe voltato e i loro occhi si sarebbero incrociati e toccati in un addio silenzioso.

“Sperammo ca lu vedo sano e salvo l’anno che vene lo figlio mio. Maronna mia proteggilo tu, ca io nun pozzo cchiù.”

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