Racconto di Silvia Marcarini

(Quarta pubblicazione)

 

 

Ascolta, osserva e taci. Il silenzio è là fuori.

Sotto un ignoto manto di luci di una notte solitaria di fine ottobre, rievocai nella mente le ultime parole di uno sconosciuto incontrato qualche anno fa, che ancora adesso, trasudano l’odore mistico del visionario: “Povera umanità, tanto fragile come un fiore appena reciso, riuscirai a nasconderti dall’oscurità dell’universo?”

Nelle torbide acque di quest’enigma dall’animo grottesco, all’inizio mi abbandonai al tepore puerile dell’immaginazione: forse, per un Osservatore esterno, siamo il soffio vitale di un antico essere che si nutre d’innocenti stelle oppure degli ingenui primati dispersi su una foresta urbana chiamata Terra, alla mercé di furtivi predatori.

Riuscii a comprendere questa fatalistica alchimia dopo aver pian piano sviscerato l’assurda storia che alimentava da qualche tempo la sua esistenza. Rimasi titubante di fronte all’autenticità degli avvenimenti narrati,finché in una crepa della razionalità, intravidi quell’uomo, schiavo del pregiudizio e con un’ostentata attrazione perversa e morbosa per un’incomprensibile paura.

Ho sempre pensato che la verità trapeli da singoli dettagli istintivi e fugaci, come in questo caso, da una leggera contrazione del labbro superiore che rimarcò sulla bocca, l’incredulità dell’uomo.

Si sopravvive senza tregua, in un ovattato e seducente presente di servilità agli stimoli sociali,ma un giorno forse, liberi dai vecchi schemi di pensiero, riusciremo a cogliere, così come per quell’individuo, una dimensione spazio temporale, più o meno benevola e a volte magari appena percettibile, proveniente chissà da quale regione dell’universo che soltanto con la fede si potrà capire.

Subito dopo, senza indugio, abbandonai queste illazioni inconsuete e rivangai quel giorno che sembrava ormai lontano, ma in fondo sempre vigile e presente.

In una navata laterale di un’antica chiesa di campagna, nota a pochi, alcuni coriandoli di candele dal volto ricoperto di lacrime, alimentavano con il fuoco dello spirito, una preghiera di solitudine.

Squame di colore rivestivano desertiche nicchie, attraverso la sacralità di eterne effigi.

Seduto su un banco di legno, avvertì la presenza del mio corpo per il freddo pungente che s’irradiava nelle vulnerabili ossa.

Un ticchettio di piccoli passi, frettolosi e fulminei, svanì dietro al malandato vecchio portone, vigilato da figure inanimate d’alabastro.

Credevo di essere solo davanti a quel crocifisso di passione, ma sentii una fievole voce alle mie spalle che cercava un modesto rifugio.

Mi voltai e vidi un uomo, piuttosto esile e curvo, dalle mani nodose come tralicci di vite che tenevano strette un rosario d’avorio, forse, un lontano ricordo di famiglia.

Per un attimo fui colto da un’egoistica reticenza; però ben presto, allontanai dal mio sguardo diffidente, la cinica Babele che ci divideva.

Si trovava lì, proprio come me, per cercare delle risposte; mi chiese, se nella grande immensità del Creato, potevano coesistere altri “figli d’umanità”.

Mi raccontò di una notte molto particolare. Si era addormentato da poche ore, quando verso le tre del mattino, il torpore della coscienza fu risvegliato dal riverbero di una strana Creatura: eterea, senza età né sesso, situata vicino al bordo del letto.

Si sentì immobilizzato e abbastanza incuriosito da quell’impalpabile organismo, fino a percepirne nel silenzio innaturale della stanza, il linguaggio sordo all’orecchio umano.

L’attenzione dell’uomo fu catturata da una piccola luminosa sfera blu d’energia, emanata dall’inconsueto Ospite che gli penetrò lo sterno, tanto da precipitare in un limbo, dove il tempo si dissolse tra sogno e realtà.

Il suo corpo, trasmigrò in un luogo remoto: su un lungo tavolo di pietra, di un antico sacrario invaso da una folta e selvatica vegetazione.

Intorno all’inaspettato “banchetto”, si preparavano a nostalgici rituali, dei sinistri commensali: piccoli uomini irrequieti e sanguinei, come indomabili spiriti, dediti al piacere e al consumo di foglie caduche provenienti dal vizioso giardino dell’oblio.

Eccitati dalle impotenti grida di dolore dell’incauto “visitatore” svestito della propria dignità, si appropriarono senza indugio, mediante sottili unghie adunche, dell’inerme cuore mortale, per sentire la profondità della debolezza umana.

Ne seguì l’amaro risveglio dell’uomo con un doloroso e vago malessere; dinanzi allo specchio della camera da letto, intravide sulla deturpata nudità, qualcosa di nuovo: irregolari cicatrici violacee, le stesse che poi mi mostrò quel giorno.

L’osservavo sbigottito, forse la sua mente, delirante e malata, era vittima di un’insensata suggestione dagli effetti autolesionistici.

Dopo, con innocente candore, mi chiese: “Cosa mi hanno fatto? Mi hanno tolto il cuore o l’anima, Reverendo Padre? Cosa c’è là fuori che non conosciamo?”

Sobbalzai di scatto per il tono disarmonico della sua voce, seguito da una fragorosa e assurda risata che rimbombò all’interno della chiesa; quell’uomo oramai sfigurato nello spirito, vagava come un’ombra in cerca d’identità.

Se ne andò, salutandomi con un vezzo d’ambiguità che travolse i miei pensieri con brividi d’incertezza fino all’ora della Messa quando dal pulpito, pronto per l’omelia, mi rivolsi all’Unico che mi poteva sentire: “Dio, aiutami tu”.