Racconto di Alessandro Zecchin
(Prima pubblicazione)
Tokio, Giappone.
17 luglio 2020, venerdì
Ore 19.42 locali
”Alzati! Cristo santo, alzati, alzati! AL-ZA-TI”!
“Mancano 17 secondi, cavolo! ALZATIII”!
Il cameraman indugiava sulle gradinate: era uno spettacolo nello spettacolo quell’occidentale incanutito, avanti con l’età, neanche tanto alto e la tuta di un giallo accecante, che si agitava come un ossesso mentre urlava al vuoto sotto di lui. La giacca, quasi completamente aperta, mostrava fiera un fisico ancora atletico. Anche il tono dei muscoli, trattenuti a fatica da una t-shirt bianca, assicurava decoro ad un corpo che pareva ben sopportare l’insulto degli anni. Coi pugni colpiva violento la balaustra d’acciaio, la quale, fredda come il pubblico appena dietro, rimaneva indifferente alla tragedia del momento.
Alessia è a terra, su un fianco. Le mani che stringono il ginocchio raccolto in ventre, i denti che mordono un labbro già tumefatto e gli occhi serrati che non vogliono piangere. Immobile.
La TV era prontamente tornata sull’atleta italiana: stava trasmettendo in diretta quello che sembrava un fermo-immagine. Uno zoom impietoso riempiva adesso lo schermo con lo strazio scolpito su quella faccia bambina.
° ° °
Venezia, Italia.
13 gennaio 2018, venerdì
ore 20.21 locali
”Alessia fermati. Gli altri possono andare!”
Poche, risolute parole, congedavano quella sera un gruppo di adolescenti svogliati.
No, fra loro non c’era nessuno guidato da un qualche sentimento per quest’Arte. Costretti alla attività sportiva dai genitori, quei ragazzi avevano scelto il karate. La loro idea di karate.
Nicola non nascondeva il fastidio e stasera anche il tono aveva aggiunto del suo: era la sua palestra, cristo santo! Se non avesse avuto bisogno del loro denaro, li avrebbe cacciati a calci da tempo.
Alessia, invece…
Sul tatami Nicola, 31 anni, ci ha passato tutta la sua esistenza.
Il suo giovane papà si era appassionato alle arti marziali affascinato dalle lontane filosofie orientali. Non appena il figlio fu in grado di camminare, l’aveva portato -iscritto! – in quella palestra. Gli piaceva l’idea di condividere col suo bimbo quel tempo, fra gioco, disciplina e fatica. Un vantaggio sugli altri sport che dovevano godersi: col Karate è naturale l’incrocio di generazioni diverse sullo stesso quadrato di gara.
In realtà, il papà era morto troppo presto.
I ricordi di Nicola per suo padre erano una sorta di patchwork che egli voleva incompleto: le foto sul comò come pezze, cucite insieme dai racconti della mamma.
Quante volte aveva fatto ripetere a lei quelle storie! Quante volte le aveva fatto aggiungere particolari: ”Ma papà…, Ma lui…, Ma come…” Di volta in volta le immagini si arricchivano di odori, di rumori, di silenzi. Tanti dolorosi silenzi.
Si era trascinato in camera le medaglie e i trofei e li aveva allineati sulle mensole di fronte al letto perché gli trasmettevano pace: si sentiva come gli altri bambini anche se usava meno parole e un tono più basso.
Papà era in camera con lui e gli avrebbe potuto parlare, quando ne avesse avuto bisogno.
Una foto in particolare glielo assicurava, sul cantonale. Gli dava la certezza della mano che il padre, dopo tanti anni, ancora gli teneva. Sorridente, in mezzo ad altri due atleti, la medaglia d’oro al collo e una pianta di limone -premio dello sponsor- al posto della coppa. Interrata subito in giardino a ridosso del portico, appena dopo la vera da pozzo e in prossimità dell’ingresso principale, quella pianta viveva ancora. Un rigoglioso albero che, a una latitudine improbabile, aspettava diligente i giorni del funereo anniversario per piangere, copioso, i suoi più intensi profumo e colore…
Ecco: Nicola sono io. Obbligato dagli eventi a rincorrere i pensieri, a guardare me stesso da lontano, a trattare con i sogni.
° ° °
“_Dobbiamo riprovare l’UraMawashi Geri. Non ci sei ancora”.
“Mi fa male il ginocchio, maestro. E i miei mi stanno aspettando giù.”
“Tu ti fermi, soffri e ti metti in testa tutti i dannati passaggi del calcio! Non te ne vai finché non lo esegui come cristo comanda”!
Le urlo addosso tutta la mia frustrazione. E lo so. Ma serve a lei, che invece non sa.
Alessia mi è simile. Fatta di una sensibilità timida, fragile, introversa. Vera.
Inadeguata, per quegli idioti che si accontentano di respirare per sentirsi vivi. Gli illusi del selfie; quelli che si danno forma con i filtri dell’I-phone -in bagno- in patetiche pose sempre uguali: maglietta -logo in mostra- arrotolata sui glabri addominali di plastica; con, al polso e in vista, l’orologio che gli conta le calorie bruciate e i neuroni morti; inquadrando, ai piedi poco lavati, le spropositate scarpe di nylon e finta nappa, comperate di nascosto ai genitori coi soldi truffati alla ingenua nonna vedova.
Inadeguata, per quegli incompiuti che non realizzano di essere un niente nel nulla: come quei nessuno che ho appena mandato via e ai quali Alessia vorrebbe piacere. Ma giusto per non essere sola.
Sono vermi, loro. Lei è un bruco.
Quindici anni, sfigata. Glielo hanno rinfacciato gli “amici” del paese che i genitori le impongono; glielo hanno ripetuto, perfidi, gli omologati compagni delle medie, prontamente eliminati dai contatti concluso il triennio. E ora anche quelli del Liceo, che si coprono la bocca con la mano e lo sussurrano piano, mentre ridono complici, passandole oltre…
Fa più male.
Una figura minuta, gentilmente compiuta, armoniosa nei movimenti e nelle forme, celate queste, dalla felpa granata di due taglie più grande; il triste sorriso, radioso comunque, per via di quelle delicate fossette che affiorano quando i suoi occhi vengono incontro; i lunghi rossi capelli mossi, che si affrettano a nasconderle lo sguardo vivo e intelligente, appena Alessia prova disagio e china il capo.
Tenera, quando chiede complicità ai fedelissimi jeans -aderenti solo sui glutei- nel nasconderle polpacci e caviglie perché lei -anima!- crede grossi. Lisi e laceri come il suo spirito…
Un’esplosione di emozioni e sentimenti, congelata dal modo educato e dimesso di chi, ferito, non intende ferire: l’istantanea che la raffigura benissimo.
Sul tatami vuoto, la metamorfosi: non puoi essere uguale, ragazza. Tu devi volare.
Il ginocchio dolente rappresentava la sua “bandiera bianca”, di resa.
Lo evocava ogni volta che sentiva di non spingersi oltre, di non rischiare.
Il tono perentorio la scosse. Prese posizione, inarcò la schiena, roteò: la gamba sinistra piantata, mulinò il piede destro e lo lanciò lassù. Sì, volava.
”Andrai alle Olimpiadi”.
° ° °
Tokio, Giappone.
17 luglio 2020, venerdì.
Gara per il 1°e 2°posto.
Ore 19.42 locali
Dopo 2’.43’’ il risultato della finale è di 0 a 2. E lei a terra, chiusa a crisalide; con la gamba raccolta, che non riesce a spiegare.
Ora, tra le mille, è la mia voce che le ordina la muta, che la spinge ad alzarsi.
“I vermi strisciano! Quella è un’ala! Non lasciartela strappare”!
“UraMawashi Geri!”, grido. Grida. Insieme gridiamo.
Ridestandosi da un sordo e interminabile ralenti, apre gli occhi e cerca i miei. Recupera il paradenti caduto insieme all’orgoglio. Li azzanna entrambi: forte, ferma a non perderli più.
Poi silenzio: completo, lento. Freddo come la luce dei neon e la balaustra in tribuna.
Le parole mi annaspano dentro, in cerca del fiato che i polmoni non spingono su. Anche il cuore manca un battito che-so!- non mi restituirà più. Eppure è stupendo: la mia farfalla si è messa a volare!
Sul display lampeggiano nuove cifre che subito la sirena congela: ITA 3-USA 2.
Vado con gli occhi sulle gradinate: migliaia di bandierine bianche e rosse sventolano impazzite.
Non trovo più la tuta fluo che si stagliava insolente. Allora guardo più su, ghermendo luce attraverso le lacrime. Profumano di limone le tremule stelle del cielo di Tokio.
“Oss, papà”.
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