Racconto di Filippo Rigli

(Nona pubblicazione)

 

Era passato da poco il tramonto quando cominciò lo scompiglio, e mi stavo apprestando a prendere servizio di vedetta, sulla grande torre centrale. Allora non ero che un ragazzo, poco più di un infante, battezzato in acqua e Spirito Santo, ma non ancora col ferro, e temevo la pugna, perché si teme quello che non si conosce. A mezzo della scalinata risuonarono fino al cielo le trombe degli allarmi, il vocio dei miei compagni d’arme dabbasso e il clangore delle armi. Andai allora a prendere la cima della torre per vedere cogli occhi miei cosa aveva provocato quel finimondo. I nostri esploratori non avevano fatto ritorno e si sapeva che le loro teste giacevano sulle picche nel campo nemico, e i più spregiatori tra quelli li lanciavano tra le mura avverse, così mi avevano raccontato i compagni, per burlarsi di me. Così almeno volevo credere. Mai prima di allora avevo scorto nulla di simile. File e file di armati a cavallo procedevano al trotto alla luce di torce, coprivano l’orizzonte, mille e ancora mille vi si stagliavano. Sperai che ancora m’addormissi, che quello fosse un incubo sussurrato da qualche dimonio, ma la corazza mi spiombava in su le spalle. Ove mai si era potuta radunare una simile armata, ci si chiedeva col terrore nel cuore, senza che nessuno n’avesse favella, e già dalla coorte si levava la voce tonante del capitano che vorticava lo spadone.

Non era uomo che fosse prudente contraddire, quello, alto sei cubiti e privo di un occhio, con su il corpo incisa in punta di lama la mappa delle battaglie che il suo usbergo aveva specchiato. Aveva strappato le viscere all’infedele nella Santa Crociata; contavano i compagni quando il vino scrosciava davanti ai fuochi. Il suo ferro si era coperto di gloria innanzi al Signore e lo temevamo forse più dello stesso nemico. Sacramentava quello peggio di un eretico in modi che quivi non oso ripetere, brandendo lo spadone.

Non riconobbi le insegne stregonesche di serpenti porpora che le schiere dell’assedio inalberavano, non parevano di eserciti cristiani, neppure i compagni miei anziani le conoscevano, e neppure il capitano nostro, reduce di mille battaglie che dell’arte della guerra sapeva i segreti. Pagani, adoratori del maligno, disse qualcuno sui merli, fissando quella schiera silente. Non era solo il timore dell’assedio che ci attanagliava il basso ventre, oltre alla certezza della nostra caduta prossima, giacché pure i rifornimenti, come gli esploratori, non erano rientrati. Altro ci crucciava, che non le cose che sono il pane dell’omo d’arme, che se le porta come il mulo col basto. Altro straniva, in cotanta schiera, altro che mai financo i veterani di mille battaglie avevano avveduto. Non un grido o una fanfara si levava da quella schiera innumerevole di cavalieri e di fanti a terga loro che si stendeva a perdita d’occhio; non un sospiro. Stregoneria quella ci parve, e pure tra noi si fece largo un silenzio come di pietra, e anche il capitano nostro si fece scuro in volto e si azzittì. E se pure lui teme, ponderavo, solo pregare ci resta, giacché siamo perduti. Ma il silenzio, se non è di devozione, non sedimenta nei cuori e il terrore ci spalancava le fauci.

Un mormorio sorse e divenne un grido, quella parola, stregoneria, correva di bocca in bocca. E come a conferma che l’Avversario in persona spingeva la schiera avversa sulla valle calò la nebbia e come un grigio sudario l’avvolse, e il nostro terrore si fece più vasto. Come donnette vidi allora urlare veterani arabescati di cicatrici, taluni in ginocchio con le mani giunte, a invocare nostro Signore e tutti i santi, e senza ritegno piangere. Ma la grazia invocata accorse, nel tonante miracolo della voce del capitano nostro, che si levò sopra i lamenti e lo spazzò via come il vento, a riportare la disciplina degli uomini d’arme che eravamo. Come un invasato quello correva e proferiva bestemmie, e d’intorno menava colpi di manico d’ascia sulle schiene ricurve, tanto che mi rallegrai di non essere nei paraggi di quello. Quando ebbe ristabilito l’ordine a furia di fendenti avocò a sé i suoi luogotenenti e fitto concionavano i quattro come comari all’ora dei vespri. Poi i tre li vidi correre ai lati del quadrato e il capitano a noi si rivolse con sguardo di temporale. Gettò l’ascia e sguainò lo spadone levandolo al cielo. Sortita, gridò con tutto il fiato che aveva nel corpo. Sortita, ripeterono i tre sottoposti e l’ordine mutò in un grido guerresco che scoteva le mura della piazzaforte come le trombe di Gerico. Di certo pure al nemico arrivarono le grida nostre e seppero che da soldati saremmo caduti, con l’arme in pugno e non come agnelli sopra lo altare. Pronti ci schierammo davanti al ponte levatoio e il capitano e i luogotenenti montarono in sella e ci passarono in rassegna, più di prima urlando e battendo gli spadoni contro gli scudi. Così noi facemmo lo stesso bramando la pugna, che per me era la prima e forse, mi dicevo nel cuore, anche l’ultima. Altro che la sortita, sotto l’assedio: tentare non si poteva, come un solo lancio di dadi davanti al fuoco, perché gli assediati perivano come sorci nella tana, falcidiati dai malanni e dalla fame e dall’arsura. Mille volte meglio cadere in battaglia, a filo di spada, in grazia di Dio. Gridò allora il capitano agli uomini all’argano di dare olio coi gomiti e il ponte calò sulla sorte nostra. Di nuovo il silenzio si fece sulla nostra schiera, di nuovo fu rotto dalle nostre grida mentre attraversavamo il ponte, il capitano e i suoi tre in testa a cavallo.

Quelli innanzi a noi non fecero un gesto, non un grido si levò dalla schiera. Parevano statue di terracotta più che cristiani, armature vuote e non cavalieri vestiti di ferro per la battaglia. Gomito a gomito ci stringemmo, pronti alla pugna a un cenno del capitano. Ma l’ordine non ci fu e il capitano da solo partì al trotto verso la schiera nemica, e finalmente da quella qualcuno di mosse, giacché il capitano nemico fece lo stesso. Allora intendemmo che voleva fare quel prode: non un bagno di sangue, ma una singolar tenzone col suo pari grado e, se la vittoria per grazia di Iddio gli avesse arriso, come da regola di cavalleria l’armata nemica avrebbe lasciato il campo. Se invero perdeva, di contrappasso, il castello andava loro ceduto e stava a quelli decidere se lasciarci andare senza pugnare, o trucidarci.

Quando i due capitani furono vicini, senza un verbo alzarono le destre. Era il segnale che c’era un accordo, la sfida era accettata e i due contendenti tornarono ogniuno al suo campo, ma il nostro dovette calmare la sua cavalcatura, che pareva impaurita. Due luogotenenti per parte presero allora a tracciare il perimetro dello scontro. Consegnarono poscia la lancia al capitano, che la brandì per l’aere per provarla, e lo stesso fece il nemico. Quando i luogotenenti alzarono i drappi, la guida nostra la lancia la levò verso il cielo per buona sorte, e forte il nostro grido bellicoso risuonò nella valle, fino a infrangersi come un maroso sull’acciaio dell’arme nemiche. Solo silenzio ci venne in risposta da quelle schiere stregate. La tenzone era iniziata e noi miravamo col core stretto. Il capitano calò la celata in su gli occhi ed entrambi i campioni partirono al gran galoppo, le lance in resta l’un contro l’altro. Grande sconforto ci prese alla gola, quando vedemmo il capitano nostro disarcionato rovinare a terra con grande clangore. Eppure a nessuno parve, tra i nostri, che la lancia del capitano nemico avesse incrociato lo scudo del nostro. Visione fallace di nebbia e di buio, forse, o opera del dimonio. Non un cenno di vittoria fe’ quel tizzone d’inferno, e nemmanco un grido i suoi.

Noi per istinto facemmo un passo verso il nostro, ma il luogotenente ci sbarrò la strada mentre l’altro rincorreva il cavallo che pure pareva indemoniato. Giammai niuno poteva difatti prestar soccorso a un duellante, giacché, se quello presto non si rialzava, il duello era bello che finito, e noi alla mercè de li nemici. Ma non occorse l’aiuto nostro, perché la mano del Signore intervenne a tirare su il nostro campione, che sputò e proferì male parole gettando via la lancia spezzata. Pure ammaccato levò la destra verso noialtri, che presti lo acclamammo. Il duello aveva da continuare e Iddio era dalla nostra. Il luogotenente riportò la cavalcatura e il capitano sfilò dalla sella lo spadone che roteò verso il cielo, e pure lo giubilo nostro vi si involò. L’avversario pure smontò da cavallo e uno scudiero gli porse lo spadone suo, ch’era brunito come la notte. Con lentezza i due presero a studiarsi, disegnando cerchi sulla terra con gli schinieri, come due sesti mossi da mani ignote. Noialtri serravamo le file, schiacciati dal peso delle armi, niente più che spettatori del duello, ammutoliti come i nemici nostri.

Partì infine l’avversario menando una gran botta, che si infranse di taglio sulla lama del nostro, che si fece indietro per contrattaccare, sospinto ancora dalle grida nostre che mandarono in pezzi il silenzio. Fu il nostro allora a partire con tre fendenti di fila, ma pure l’avversario parò e mantenne la guardia. Durò poco lo studio e i due si si scambiarono colpi di grande maestria. C’era da rimanere incantati a quella danza di guerra, che mai più ne vidi una di tale prodezza nella mia lunga vita d’omo d’arme. Niuno dei due pareva poter prevalere sull’altro e solo per sfinimento aveva da finire quello scontro senza pari, giacché niuno dei due poteva portare l’assalto finale. Ma nelle movenze del nostro per prime apparivano i tristi segnali della spossatezza, meno svelte le sue gambe possenti e il roteare dello stocco, mentre l’avversario, di contrappasso, pareva instancabile, fresco come quando aveva cominciato a duellare.

A favore di quello volgeva lo scontro e noi eravamo certo perduti, che solo felloni spregiatori della cavalleria potevano essere quegli adoratori del diavolo, e avremmo seguito il nostro campione nelle volte celesti, nella cerchia dei guerrieri caduti per la buona battaglia. Una cupa disperazione mi avvinse e non di trattenere le lagrime non mi venne e con gli occhi infradiciati già chiedevo ai santi di intercedere per l’anima mia e farmi morire da degno soldato, quando nel mentre l’avversario alzò lo spadone in quello che pareva l’affondo decisivo, giacché il nostro ormai sfinito, lo aspettava a capo chino e colla guardia abbassata.

Ma, quando quello affondò, il capitano repentino scartò di lato, lasciando quello e noi tutti di stucco, e con lo spadone sollevato partì a sua volta in affondo di taglio mentre l’avversario sbilanciato cadeva in avanti nel vuoto. Alla base del collo lo colse il fendente e non era poca la maestria che ci voleva a cogliere il poco di spazio alla base dell’elmo. Come sotto le mani del boia l’elmo dello avversario si staccò dal collo con tutta la testa e rotolò nella polvere e pure il corpo decollato, dopo uno spasmo, lo seguì crollando a terra. Il capitano sollevò lo spadone verso di noi che gridammo la nostra gioia come selvaggi.

Quello che accadde poscia lascia increduli a raccontarlo, ancora che la polvere degli anni vi si è accumulata e pur io che lo vidi financo esitai, ma Dio mi è testimone, e pure i miei compagni d’arme di allora, quelli che il mietitore non ha ancora falciato. Il capitano sollevò allora la testa dell’avversario per mostrarla alla schiera nemica e far così lasciare il campo nostro a quella. Ma il nostro presto lo gettò a terra e per la prima e l’ultima volta vidi il terrore negli occhi di quello indomito guerriero.

Era vuoto, l’elmo, privo di testa e pure tutta l’armatura, che il capitano in preda alla rabbia smosse con un calcio. Il nemico ancora rimaneva immobile e né ancora un grido si levava dalle schiere, come fossero pietra. Il vento invece si levò in quell’istante e davanti agli occhi nostri allibiti quelli si fecero polvere, e il vento se li portò assieme alla nebbia.

Un’alba radiosa pure si alzò dalle colline e sì che ci pareva che neppure un tocco di campana fosse passato dall’avvistamento, come se pure il tempo stesso ci menasse per il naso. Della schiera nemica già non vi era più traccia e pure l’elmo e la corazza dell’avversario si fecero polvere e sparvero. Sentimmo dunque in lontananza nitrire dei cavalli e da dietro il crinale, ove fino a poc’anzi era schierato il nemico, vedemmo cavalcarci incontro le nostre vedette, ancora vive, a sprone battuto, di tutto ignari, con alle spalle la luce fulgida del Signore, che saliva.

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