Racconto di Silvia Golfera
(Prima pubblicazione)
-Che ci fai lì? – chiedeva la madre, sorprendendola accucciata dietro la porta. E senza indugiare, la scavalcava.
Più tardi, dopo il fatto, per quanto frugasse nella memoria, non riusciva a ricordare un’occasione in cui sua madre l’avesse veramente guardata. Eppure, non era possibile. La testa correva avanti e indietro in cerca degli occhi di lei, sbiaditi come il sole d’inverno.
Le capitava di spiarne la schiena curva sulla macchina da scrivere, l’impazienza delle spalle, mentre si massaggiava il collo.
Ne immaginava lo sguardo fra i rami inquieti del parco, oltre la finestra. Avrebbe voluto accarezzarle i capelli neri e arruffati, che la donna non le permetteva di toccare. Ma non osava. Si allontanava, per non farsi scoprire. Nascosta in qualche angolo della casa, si sentiva una ladra.
E poi quella odiosa abitudine, quando le parlava, di occuparsi sempre d’altro, cuciva, leggeva, rispondeva al telefono. Lei doveva insistere e insistere, per ottenere un’udienza distratta e impaziente.
Sua madre non era la donna pacata ed elegante che appariva in pubblico. La logorava un bisogno, sempre insoddisfatto, di agire, produrre, creare.
-Non riesco a combinare niente- si lamentava al telefono col suo editore. E lei si riprometteva di non disturbarla più, mai più.
Di questo parlava al giudice che l’interrogava. Tutto il resto era nebbia.
-Perché continua a divagare? Ci racconti invece cos’è successo il 27 novembre. Come si sentiva quel giorno? Prendeva dei farmaci?
27 novembre? Che era successo il 27 novembre?
Persino gli insegnanti, anche quei pochissimi che aveva amato fino al batticuore, non si erano mai accorti di lei. Era stata una studentessa mediocre, che trascinava la sua mediocrità da un ordine di scuola all’altro.
L’unico a metterle gli occhi addosso era stato il marito:
-Come sei bella Anna! Così bella che sembri di marmo.
Entrare nell’orizzonte di qualcuno le aveva dato finalmente l’illusione di esistere.
–Com’è noioso, questo tuo Piero! – aveva commentato la madre dopo una cena in famiglia – ma forse è la persona giusta per te.
Quale fosse l’uomo giusto per lei, Anna non lo sapeva e il giorno della cerimonia sfoggiò un sorriso di circostanza.
Piero la deluse da subito.
Il suo lavoro d’ingegnere lo teneva spesso lontano e al rientro, esausto e innervosito, lasciava vagare uno sguardo distratto. Cenavano in silenzio. E mentre la domestica sparecchiava, fumavano una sigaretta. Lei allungava una mano che lui stringeva. Appena il tempo di accoppiarsi sotto le coperte, al buio, prima di perdersi nel sonno.
Quando si accorse di essere incinta, si sentì tradita.
Aveva fantasticato la gravidanza come un trionfo. Ora si stupiva che quegli amplessi sbiaditi e frettolosi avessero prodotto qualcosa.
-La maternità può essere una gran delusione- aveva sospirato la madre, già ammalata, quando glielo aveva annunciato. Esaminava intanto un calice controluce.
Era rincasata in preda alla nausea.
Ma poi la madre le aveva telefonato e Anna aveva colto, nella voce, un po’ di apprensione.
-Non strapazzarti. Dirò a tuo marito di starti più vicino.
Non ce n’era bisogno. In Piero si era riacceso l’antico interesse per lei.
–Non ho mai visto il signor Piero così felice – diceva la domestica.
Cercava, nonostante gli impegni, di rientrare il prima possibile. Durante il giorno la chiamava tre, quattro volte.
Anna se ne stava allungata sul divano, le gambe sollevate. Una piccola corte le ronzava attorno, l’accudiva, l’ascoltava, stava in ansia per lei. Suo figlio sarebbe stato lo scettro con cui avrebbe regnato.
Nell’ultimo periodo della gravidanza sognava spesso di essere una bolla fluttuante. La terra si allontanava e non ricordava dove fosse casa sua. All’improvviso la bolla scoppiava.
Si svegliava di soprassalto e subito tastava il ventre tirato. Il marito le infilava un braccio sotto la nuca e la tirava a sé:
-Cosa succede? Hai fatto sobbalzare il letto.
Il parto fu difficile.
Tre medici si accanirono per stanare infine una carne viva e agitata, ingolfata dal pianto. Gliela appoggiarono sul petto. Il bambino puntava la testa, come un ariete. Lei tentava di afferrarne il viso per vedere gli occhi. Lui s’inferociva, paonazzo, le palpebre gonfie e serrate:
-Via. portatelo via, sono stanca…
I primi giorni dopo il parto furono nebbia. Rullio di carrelli e passi in lontananza. Facce indecifrabili a vagarle attorno. Strette di mano, qualcuno le sfiorava la fronte.
Quando la riportarono a casa, sedeva sul sedile posteriore, accanto alla cesta col bambino addormentato. Una testa di capelli neri e ruvidi, come quelli di sua madre, e una strana riluttanza a sfiorarli.
Suo marito, al volante, allungava il collo allo specchietto.
-Che meraviglia il nostro Paolo. Sei stata bravissima.
L’auto attraversava una città irriconoscibile. La gente scorreva, come in una vecchia pellicola.
– Il dottore ha detto di non affaticarti. Ho trovato una dada.
A casa li accolse infatti una donna giovane, alta e scura.
-Piacere, Tania -, e strinse la mano inerte di Anna. Aggiunse poi:
-Che splendido bambino!
S’impossessò della cesta, quasi strappandola dalle mani del padre:
-Dovrà essere cambiato, avrà fame.
Sparì nella stanza che le avevano destinato.
Nei primi tempi Piero si occupava di tutto. Si alzava di notte per la poppata. Organizzava la casa. La sera usciva con Anna, la portava al ristorante, al cinema, a teatro. Quando la vedeva più gaia, ne approfittava per invitare gli amici. Lei si sentiva quasi felice, nonostante il vuoto alla testa. La notte faticava a prendere sonno, finché non cedeva alle pillole.
Si agitava in sogni tormentosi, sempre uguali, che la lasciavano esausta.
Trascorrevano giorni in cui quasi non vedeva il figlio. Poi si riscuoteva e affannosamente lo vestiva per portarlo da sua madre. La donna, sempre più debole, accarezzava stancamente il bambino. Sembrava voler dire qualcosa, poi si tratteneva.
Quando dovette tornare a tempo pieno al lavoro, Piero si raccomandò alla bambinaia. La dieta, il sonno, le passeggiate. Soprattutto non disturbasse Anna. Quando rientrava, la sera, per prima cosa passava da Paolo e s’informava della giornata.
Tania faceva tutto da sola, cambi, poppate, uscite. Anna si aggirava attorno alla culla, le mani vuote. S’incantava davanti al bambino, in attesa di uno sguardo, di un sorriso. Ma Paolo non guardava e non sorrideva a nessuno. A lei meno che a tutti.
–Sono la mamma – gli sussurrava, quando erano soli.
Accostava il viso a quello di lui, che rovesciava il capo e iniziava a strillare.
Tania accorreva, faceva penombra nella stanza e si metteva a cullarlo, a cullarlo, finché il pianto diventava sbadiglio e si addormentava.
Anna si perdeva per ore davanti allo specchio a osservare gli occhi fermi, l’espressione distratta, gli zigomi alti, la linea decisa delle labbra.
Il marito la sorprendeva così e lei si accorgeva della sua presenza quando già le sfiorava il collo. Allora si girava e si piegava a sbottonargli i pantaloni, a cercare il pene da succhiare.
Sua madre stava morendo e Anna ogni giorno usciva per andare da lei. Ma poi svoltava in un’altra strada, e vagava a caso. La morte la colse di sorpresa.
Stesa nella cassa, nel riverbero dell’imbottitura di raso, sembrava un fantasma. La vegliò a lungo, nel flusso di parenti, amici, autorità cittadine. Ne aveva osservato il naso gonfiarsi lentamente e le labbra sbiadire. Le sembrò che sotto le palpebre qualcosa fermentasse e per un attimo lottò col desiderio di aprirle.
Paolo era cresciuto, adesso seguiva docilmente Tania. Non piangeva, non urlava. Si trastullava roteando le mani, succhiava la punta di un indumento. Ancora non parlava. Il padre s’inquietava e lo spronava.
-Paolo! Hai visto che t’ha portato papà? Guarda quanti animaletti, il gatto, la papera…
‘Tania’ e ‘papà’ le sole parole che riusciva a strappargli.
Una sera tirò fuori l’idea di far visitare il figlio da uno specialista.
-Che ti salta in mente? Il bambino sta benissimo! – protestò Anna.
-Ha quasi due anni e dice solo due parole. Non sorride mai.
-A te. A me sorride tantissimo.
-Non mi pare. Lui vuole solo Tania. Abbiamo sbagliato a tenerla così a lungo.
-Sei stato tu a volerla.
Non ne parlarono più, ma ora Anna spiava il figlio e la dada.
Usciva con loro. Tania spingeva il passeggino, lei a indugiare davanti alle vetrine. Però al parco non aveva pace.
–Non lasciarlo sull’erba umida… si mette le mani in bocca…
-Se non le piace come tengo il bambino, può licenziarmi!
Anna si arrendeva subito. Ritrovarsi sola con quella creatura, la terrorizzava.
Un pomeriggio freddo di nebbia, mentre vagava da una stanza all’altra per sfuggire alle canzoncine di Tania, squillò il telefono. La segretaria di un neuropsichiatra chiedeva di spostare l’appuntamento.
-Deve esserci un errore.
-Scusi, lei è madre di Paolo…
-Si.
-Suo marito ha preso un appuntamento per sabato prossimo, alle dieci di mattina. Il Professore si scusa, ma è impegnato in un congresso. Potrebbe vedere il bambino dopo domani alle diciotto.
-Io…ne parlerò con mio marito. La farò richiamare.
-D’accordo. Arrivederla.
Rimase col ricevitore in mano. Sentiva ancora la voce di Tania, e poi gridolini e risa che non erano sue. Paolo cantava con lei. Rimase a osservare la nebbia.
Quando entrò nella camera, Paolo nascose le mani nelle maniche del maglioncino giallo e prese a succhiarne una. Tania sorrise.
-Faccio io il bagno al bambino- disse Anna.
Lo prese in braccio e lui si lasciò portare via.
Nella vasca piena di schiuma Paolo affondava i pesciolini di gomma. Si accaniva contro quello rosso, che tornava sempre a galla.
Anna stava inginocchiata, il mento sul bordo della vasca. Allungò la mano ad accarezzargli i capelli.
-Paolo, di’ mamma. Mam-ma…mamm-maa…
Il bambino continuava il suo gioco.
Allora intonò una vecchia canzone
-Ti ricordi di un ragazzo che rubava…e soltanto nel buio giocava…Ti piace? Cantala con me … Ti ricordi di un ragazzo che rubava…e soltanto nel buio giocava…
Aveva dimenticato il resto.
Io non ho voce, pensò. Ricordò che, quando suo figlio nuotava dentro di lei, aveva provato una meravigliosa sensazione di esistere.
Appoggiò la mano sulla testa di Paolo e lo spinse lentamente sott’acqua.
Lui non fece resistenza. Ci fu un guizzo. Fu facile bloccarlo sul fondo.
Quando tirò via la mano il viso del bambino emerse a pelo d’acqua.
Allora qualcosa si sciolse e finalmente assaporò una specie di pace.
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