Racconto di Mario Rigli

(Prima pubblicazione – 5 maggio 2019)

 

I viali di scorrimento che abbracciavano la città erano intasati all’inverosimile. Non era neppure ora di punta. Mi ero fatto premura di sbrigare il lavoro in fretta per avere, in compenso, la libertà di uscire con una mezz’ora di anticipo. In verità avevo chiesto di usufruire anche di una delle tre ferie che mi restavano. Nulla da fare. Il lavoro massiccio di fine anno, le chiusure di esercizi amministrativi e di gestione, i rendiconti finali mi avevano costretto in ufficio anche la vigilia di Natale. E la mezz’ora, che ero riuscito a guadagnare saltando il tramezzino di mezzogiorno e il caffè delle quattro, non era servita a niente.

Un traffico caotico e io, tutto intabarrato, ero impotente e prigioniero nell’abitacolo. I puzzolenti fumi di scappamento si univano alla nebbia vaporosa che, come sortilegio, sembrava uscire di sotto terra. Per di più quella pioggia, che senza mutare di intensità e di ritmo cadeva da più di quattro ore, rendeva ancora più problematico lo scorrere dei veicoli sulla patina viscida e catramosa del selciato.

Catrame e fuliggine erano presenti anche dentro di me. Da poco la mia ragazza mi aveva abbandonato per un altro forse più stupido, certamente più bello, dovevo riconoscerlo. Ma non me ne ero fatto una croce, stava cominciando a stancarmi, almeno credo. Non aveva niente dentro quella bella zucca rosso carota.

Forse per la prima volta non riuscivo a sentire la magia del Natale. Una tristezza immotivata -o forse aveva un motivo? – un malessere e una noia mi tenevano lontano dalla festa di cui mi ricordavo soltanto per le luminarie che, insieme ai fari dei veicoli, si riflettevano nell’asfalto, si riverberavano, coltelli taglienti, nei miei occhi attraverso le spesse lenti di miope. Non volli neppure, nonostante il freddo, accendere il riscaldamento, perché la leggera patina spumosa che appannava i vetri dell’automobile, donava alle immagini esterne un’atmosfera flou, quasi di favola. Mi sentivo protetto all’interno dell’abitacolo. Le gocce che si abbattevano sul vetro anteriore, spazzate di rado dal tergicristallo posto sulla velocità minima, si riempivano di luce e colori, sottratti ai raggi che venivano da fuori. Mi rammentavano piccoli alberi natalizi. I rami erano costituiti dai rivoletti delle gocce, ormai troppo gonfie, e precipitate verso il basso un attimo prima che tutto fosse annullato dalla caliginosa delle spazzole. Neppure lo sbrinatore avevo acceso, quasi fossi uno struzzo impaurito dall’aria che aleggiava fuori del veicolo. Sentivo come un brivido strano percorrermi la spina dorsale, su e giù, instancabile, per le vertebre.

Ormai avevo rinunciato ad arrivare puntuale ad un ritrovo di amici, fra l’altro neanche mi interessava molto. Del resto ero costretto alla forzata mancanza di puntualità da quell’immane processione di insetti scuri dalle lucide elitre e dagli occhi abbaglianti di luce che, a singulti, si muovevano lungo il nastro scuro e riflettente della strada. Mi accorsi stupito di non aver mai pensato alle macchine, che ritenevo indispensabili, come a delle blatte appiccicose. Eppure quella sera mi sembravano proprio schifosi coleotteri come impaludati e quasi impossibilitati ad uscire da una fanghiglia plumbea e maleodorante, loro vomito ed escrementi insieme.

Al margine del campo visivo, velocissima immagine, mi balenò una figuretta evanescente. Stava diritta e dura sotto la pioggia cercando probabilmente un passaggio.

– No, non mi sono fermato per te, ehi, aspetta, ho fretta! – quasi esclamai prima che la silhouette, scura contro la chiassosa luce di una vetrina di abbigliamento, entrasse nella macchina. Avevo beccato un’altra volta il rosso. Neppure con i semafori avevo fortuna, quella sera. Lei aveva già la maniglia in mano ed apriva la portiera.

Come una ventata gelida penetrò nel veicolo e nelle mie ossa. Si sedette, accucciata, di pioggia vestita, i capelli gocciolanti, tenendosi le ginocchia puntute con ambedue le mani, sopra un sedile grandissimo per la sua figuretta minuta. Il viso di un bianco spettrale, ossuto, gli occhi chiari, assenti e come persi in misteriosi ricordi.

– Grazie – mi disse in tono conventuale, strascicato come se invece dalla bocca provenisse direttamente dalle sue viscere o da chissà quali strane lontananze. L’alito freddo che mi aveva pervaso si era impossessato ora di tutto il veicolo. Accesi il riscaldamento, sembrava non funzionare. La guardavo con un’attrazione che mi sconcertava, non potevo fare a meno di voltarmi dalla sua parte.

Era bella, però.

I capelli lisci e biondi, appiccicati d’acqua alle guance, le facevano scivolare, dentro la camicetta di pizzi e trine, rivoli ai quali non sembrava far caso. Le orecchie pallide che uscivano dai capelli incollati alle tempie e al volto erano guarnite da due orecchini di turchese, due piccoli grappolini d’uva azzurra. La sciarpa rosa, che dal collo la copriva su su fino alla bocca, venne tirata via da dita lunghe e affusolate, curate di smalto rosa chiaro, e appoggiata, zuppa d’acqua, nel sedile posteriore. Una piccola fossetta nel mezzo del mento le dava aria da adolescente. Non poteva avere più di vent’anni, ma in certi atteggiamenti ed espressioni rapite, quasi assonnate, dimostrava molto meno.

I piccoli seni che intravedevo attraverso la camicetta bagnata erano perfettamente immobili. Le labbra esangui appena palpitavano. Il petto né si alzava, né si abbassava nonostante il probabile affanno per la breve corsa verso la macchina.

– Come ti chiami? – mi azzardai a chiederle.

– Virginia. rispose e il nome mi giunse dieci, cento, mille volte alle orecchie e dentro, come percorso da eco misteriose. La parola rimbalzava fra chissà quali rocce ed acque e mi colpiva amplificata, ipnotizzandomi, quasi.

– Sono stata a ballare al F….do – continuò la flebile voce alitata, ma udibile nella sua profondità abissale.

Mi disse il nome del locale e mi stupii. Conoscevo la discoteca e non riuscivo per niente ad immaginare Virginia in quell’ambiente vestita di trine e merletti, così eterea, così morbida in mezzo allo scatenarsi della disco dance.

– Grazie ancora – disse dopo una decina di minuti – abito qui vicino – e, approfittando di un ennesimo semaforo rosso si involò leggera in un attimo. Non riuscii neppure a percepire il tonfo della portiera, quasi avesse, incorporea, attraversato il metallo. E neanche la scorsi sulla strada, si era volatilizzata come un fantasma.

Guardai il nome della strada: via Soffici riuscii a leggere attraverso i vetri.

Il senso di gelo stava allontanandosi dalla macchina, restava solo uno stucchevole odore dolciastro, forse del suo profumo alquanto stantio.

Quell’incontro mi aveva profondamente turbato. Ora che tutto diveniva più sfumato, pensai di aver avuto un’allucinazione, un dolce, inquietante sogno ad occhi aperti. Nulla aveva la consistenza spessa della realtà, tutto era confuso nel ricordo di pochi attimi prima. La creatura notturna era scivolata dentro e se ne era andata silenziosamente allo stesso modo, ma si era impossessata di me. I suoi contorni acerbi, ma dolci, il suo pallore lunare, il suo sguardo distante e vivido svanivano lentamente, ipnagogiche immagini, dal mio cervello. Non la sua presenza, materica certezza dentro di me.

Guardai dietro, nel sedile. La sciarpa aveva fatto una macchia umida nella tappezzeria e i peneri ciondolanti lasciavano stillare ancora qualche gocciolina.

Mi rilassai guardando la rosa chiara prova dell’esistenza di Virginia, di cui avevo cominciato a dubitare.

Si accese il verde e scattai nel traffico che piano piano si diradava e aumentava velocità.

Per tutta la sera, gran parte della notte non riuscii a prendere sonno, per tutta la giornata successiva pensai a lei. Il Natale intero trascorso a dare una qualche risposta ai numerosi interrogativi che il ricordo di Virginia mi poneva. Quale strana creatura! L’unica cosa, a distanza di quarantotto ore, di cui ero certo era la smaniosa voglia di vivere che avevo scorto nell’esile figura fiabesca. Non me ne ero reso conto in un primo momento, ma ora ne ero convinto. Da cosa mi discendesse tale convinzione non lo sapevo, ma istintivamente provavo la certezza della sua sete di vita, quasi spasmodica voglia di bruciare al più presto le tappe di un’esistenza che sentiva labile.

Dovevo rivederla ad ogni costo.

Anche la giornata di Santo Stefano non era dissimile dalla precedente, caliginosa e noiosa. Pioggia e foschia si alternavano o, senza litigare, si combinavano insieme in un cielo di cemento, oppure una nebbia spessa prendeva il loro posto impedendo la vista del pur non gratificante grigio acciaio del cielo.

Fin dalla mattina presto avevo deciso di andarmene nella discoteca dalla quale, qualche giorno prima, Virginia stava tornando. Le ore passarono lentamente in un crescendo di ansia fino a che, a metà pomeriggio, non feci ingresso nel locale. Il frastuono assordante mi trovò come sempre impreparato, ma ciò che mi fece rimescolare il sangue fu la sua visione. Nel centro della pedana, leggermente discosta dagli altri, Virginia, di un pallore funereo accentuato dai lampi bianchi e intermittenti dello stroboscopio, si muoveva, quasi fluttuando, sui fumi lenti che si alzavano dalle bocchette sul pavimento.

Era uno strano modo di ballare, non che andasse fuori tempo, ma la ragazza seguiva il ritmo dimezzando, forse riducendo a un terzo i movimenti del corpo nei confronti della musica. Volava letteralmente, eterea farfalla candida, scomparendo a tratti nel fumo spesso e nell’oscurità, quando si trovava fuori dai bagliori stroboscopici. Ora le si vedevano le caviglie fragili, ora le lunghe mani gesticolanti in alto.

Ero attratto irresistibilmente verso di lei, calamita misteriosa ed arcana.

– Ciao, Mauro – mi disse, salutandomi per prima.

Risposi a fior di voce, sobbalzando al fatto inspiegabile che lei conoscesse il mio nome. Cominciai anch’io a muovermi, rapito dallo strano ritmo che solo noi due sembravamo sentire, anzi, sembrava che gli altri neppure ci vedessero, specialmente Virginia. La sua singolarità di abiti bianchi e svolazzanti e di comportamento non attirava neppure un distratto sguardo di curiosità.

– Sai, sono vergine – mi disse guardandomi diritto negli occhi che dovevo aver stralunati per la sorpresa. Non feci in tempo neppure a rifletterci, lei continuava a parlare con una fretta febbrile e lo stesso tono venente da dentro e che nitidamente udivo nonostante il fracasso della sala.

– Sono vergine e voglio essere donna, il mio fidanzato mi ha lasciato per un’altra. Non credere a chi ti dice che le streghe sono creature di altri mondi e di altri luoghi. Sono di questa terra, sono qui fra noi. Lei era una strega, me l’ha portato via. Le fate, se mai, sono dell’al di là, le fate, non le streghe. Volevo che lui mi facesse donna, mi tenesse sua donna per la vita. E invece è stato stregato da una creatura terrena. Eccoli là –

disse indicandomi una coppia che si sfrenava indiavolata nel vortice della danza. Non c’era ombra di dubbio che lei fosse una creatura terrena, fatta di materia e sangue, di una carnalità prorompente e vogliosa.

– Lui non mi vede, non si accorge neppure della mia presenza.

Stavo per dirle che anch’io avevo avuto un’esperienza del genere e ormai era morta e sepolta, ma non potei proferir parola. Virginia aveva cominciato di nuovo a muovere le labbra e a sbattere lievemente le palpebre leggere di un colore violaceo, strano trucco per un viso adolescente, di novizia.

– Ho avuto il permesso di ritornare qui per diventare donna e tu mi farai donna. Sei contento che abbia scelto te? –

Non riuscivo a muovere la bocca, le labbra incollate per l’emozione e lo stupore di quelle parole pronunciate con la più completa innocenza. Imbambolato e in stato d’ebbrezza cercavo di riprendermi, di risponderle, quando lei, agile anguilla silente, cominciò a sgusciare fra la gente. Bloccai sul nascere un istintivo tentativo di rincorrerla: ero certo che non l’avrei ritrovata.

Come se fino ad allora mi fossi trovato in una gigantesca bolla di sapone, dove suoni e luci erano ovattati, mi trovai di colpo in una vera discoteca con tutto il suo clamore e le multicolori e volteggianti luci psichedeliche.

Guadagnai anch’io l’uscita e mi avviai verso casa pervaso da un miscuglio di sentimenti, illusione e contentezza, paura e coraggio, orgoglio e frustrazione e l’odore dolciastro del suo profumo.

Mi trovai a pensare che tutto era un sogno, irreale, ma stavolta la magia dell’incontro tardava a lasciarmi. Ne ero pervaso. Un languore melanconico, una nostalgia della ragazza mi tenne a lungo prigioniero.

Di giorno pensavo a Virginia, di notte la sognavo.

Non riuscii più ad incontrarla nonostante mi fossi dato da fare, fino a che, una notte, lei stessa mi fece visita nella mia casa, nel mio piccolo appartamento di scapolo nel cuore vecchio della città. Avevo preso sonno molto tardi quella sera, il pensiero di lei era intenso.

Mi svegliai con la sensazione di una presenza. Nella camera era avvertibile l’alito gelido e il sapore-odore dolciastro che accompagnava i nostri incontri.

Era distesa al mio fianco, gli occhi aperti, fissi in un imprecisato punto lontano. Non ebbi paura, la sua voce suadente e molle mi rassicurava, né mi chiesi come avesse fatto ad entrare nella stanza.

Una lunga, soffice veste candida fu sfilata con lente movenze e un corpo d’alabastro lucente, acerbo, ma perfetto, mi apparve luminoso. Il collo, lungo, ignudo, eburneo presentava una larga macchia scura all’inizio della prima vertebra, si sarebbe detto un ematoma.

– Sei contento che sono venuta, vero? –

La sua voce lontana mi diceva, mentre gli occhi accesi mi fissavano e sembravano oltrepassarmi. Senza che io mi muovessi si sedette a cavalcioni su di me, dolcemente, mollemente e sebbene la sentissi su di me con tutta la sua fisicità, sembrava essere priva di peso. I bei capelli biondi nella soffusa luce bluastra dell’abat-jour dondolavano pigramente, con i piccoli seni eretti, al ritmo della languida cavalcata. Senza gli occhiali vedevo tutto sfumato, ma bene abbastanza per apprezzare per intero tutta la bellezza e la poesia della scena che si dipanava sotto i miei occhi miopi.

La spostai e fui io sopra di lei.

Con tutta la dolcezza di cui fui capace cominciai ad accarezzarla e a baciarla. Aveva labbra fredde. Non aveva una stilla di sudore sul corpo né un accenno di più acceso colorito. Eppure la sentivo vogliosa anche se ingenua, non riuscivo a trasmetterle un po’ del calore del mio corpo in ebollizione.

Sentivo che la sua verginità se ne stava andando, mentre, suadente, mi guardava con gli occhi pieni di voluttà e lontani. Gemiti e brividi la percorrevano finché un grido di piacere non la fece sobbalzare più volte. Esausto mi staccai da lei mentre contenta, forse felice, mi donava il suo sorriso di bambina.

Mi appisolai un attimo.

Lei era scomparsa. La finestra chiusa e le tende che si muovevano. Eppure l’impronta del suo volto era ancora sul cuscino e, vicino, un grappolino d’uva azzurro. Nelle lenzuola e sul mio corpo il sangue del suo imene deflorato.

Da quella notte una ricerca disperata mi costrinse a vagare per la città dalla mattina alla sera. Facevo più volte, da cima a fondo, via Soffici senza riuscire una volta a vederla. Chiedevo nei negozi, nei bar, ma nessuno sembrava conoscerla. Avevo quasi perso completamente le speranze quando feci un ultimo tentativo e cominciai a descriverla. Non potevo essere molto preciso, i nostri incontri si erano consumati sempre in oscure atmosfere, ma volli tentare lo stesso. Un ragazzo di un bar credette di aver riconosciuto la descrizione, stava da quelle parti una ragazza di nome Elena che corrispondeva più o meno a quei connotati. Le era successa una grave disgrazia. Mi recai all’indirizzo che il barman mi aveva dato.

Una donna dagli occhi gonfi, sfatti di vecchiaia e di pianto, capelli scarmigliati, venne ad aprirmi la porta. Non ci fu bisogno che dicessi alcunché, la donna, credendomi amico della figlia, cominciò a parlarmi fra singulti e lacrime. La sua piccola era stata piantata dal ragazzo e dopo giorni e giorni d’apatia e solitudine si era gettata dalla finestra rompendosi l’osso del collo.

Rattristato dalla compassionevole storia tornai a rintanarmi nella mia stanza. Ero dispiaciuto per la tragica fine di Elena, ma era Virginia che volevo, era lei che stavo cercando.

Finalmente una notte, in sogno, mi apparve. Colorita, piena di vita, dalle forme meno ossute e più mature, raggiante e sorridente. Mi dette lei l’indirizzo per ritrovarla.

La mattina dopo, finalmente un giorno di sole, limpido e terso come solo poche giornate invernali possono essere, con l’orecchino in tasca, la sciarpa rosa in mano, mi diressi verso la via indicatami in sogno.

Era una strada di campagna, fiancheggiata da una doppia fila di cipressi e deserta. Non vi erano case ai lati, solo un piccolo camposanto dai muri bianchi e ben curati. Vi entrai attratto da un’invisibile forza e senza girovagare mi diressi subito verso le tombe fresche, dal terriccio ancora smosso.

E la vidi.

Vidi Virginia.

Sulla lapide il nome di Elena, ma era Virginia.

La fotografia a colori spiccava su un tronco nodoso di marmo spezzato a metà. Caddi in ginocchio sulla terra umida.

Ridente la fotografia mi fissava con la sciarpa rosa al collo e i grappolini di turchese alle orecchie.

Gli occhi pieni di pianto, arrotolai la sciarpa alla marmorea croce e vi appesi, nel mezzo, l’orecchino azzurro.

“La luce del crepuscolo si attenua:

inquieti spiriti sia dolce la tenebra

al cuore che non ama più”

“Dino Campana”