Racconto di Felicia Buonomo
(Terza pubblicazione)
A Carlot
«E come va con l’accettazione?», le domanda F. con quel suo sguardo premuroso, che mai tradisce il minimo vacillamento nei confronti della donna che continuamente sceglie di amare. Di lui vedo prepotente il colore degli occhi, ricolmi di determinazione. L’azzurro si riflette sulle griglie della panchina su cui siamo sedute io ed E., pronte a dispensare la somma dei nostri sorrisi (falsi e umidi di lacrime sotterrate) a C. Siamo convinte abbia bisogno di ridere. Ignoriamo la sua necessità di sentirsi legata al dono della comprensione, che forse solo il dio in cui lei crede potrà illuderla di ricevere.
«Non ho bisogno di fare un percorso. Non ora, almeno. Te l’ho già detto», risponde perentoria C.
Il sole di inizio settembre, in questo scenario da perfetto e inequivocabile tempo da cambiamento climatico, è alto nel cielo. E irradia i suoi raggi sui capelli corti e neri di C., una splendida 34enne che si lascia coccolare dalla clemenza del meteo.
«Ma hai i tacchi?», mi domanda allungando il collo verso i miei piedi, abituata a vedermi spesso così, anche al lavoro. Offro alla sua visuale le mie scarpe sportive e sorrido, strozzando in gola la voglia di dirle che non avrei mai preso una scelta del genere, per andarla a trovare. Lei non ha mai visto di buon grado la mia spiccata sensibilità, mi ha sempre definita “troppo buona”, nel senso meno edificante del termine. È sempre stato il suo modo per proteggermi. Lo comprendo ora, mentre siamo nel giardino dell’ospedale in cui è rintanata. Si direbbe combattiva e sicuramente lo è. Lo è, con tutta evidenza, anche il suo compagno, che improvvisamente si è trovato a combattere una battaglia non sua, anche se sa farlo come se lo fosse, sua. Anche F. è un buono, uno che “ha sofferto”, mi disse una volta C. parlando del suo amore per lui. Ora soffoca il dolore, gli mette le mani al collo e stringe forte. Anche il modo in cui muove le dita su C., sulla sua chioma corvina, tradisce questa sua spiccata capacità di sostenere la sofferenza e tramutarla in lotta.
Nei giardinetti di quello che è il migliore ospedale della sanità del Nord del Paese, sembra esserci un unico dolore. Quello della non comprensione, dicevamo. Per quanto ci si possa sforzare, nemmeno la più spiccata delle empatie potrebbe mai far arrivare a comprendere l’incredulità di chi si ritrova a essere in gioco con la vita. Da una parte ci sei tu, dall’altra la vita che tenta di sottrarsi a se stessa. Il più grande e inspiegabile ossimoro esistenziale.
- questo lo sa, anche se è ben capace di celare a chi non la conosce bene il suo tormento. Ma si tradisce nei silenzi.
È solo apparente l’assenza di suono, per me. Più abbandona la parola, più C. mi spinge nell’ego-riferimento del passato. «Lei lo sa che quello che le abbiamo trovato rappresenta la seconda causa di morte dopo il cancro al seno, nelle donne?». «No», risposi io, come se quella non fosse una domanda retorica. Ma questo a C. non oso dirlo. La guardo insistentemente, mentre il vuoto si impossessa dei suoi occhi profondi. Ci navigo dentro e scopro che lo sguardo non è né assente né vuoto, è carico di collera, ha lo stomachevole odore del disinfettante, la consistenza di una carezza tentennante che fatica nella presa, ma insiste disperata e determinata per raggiungerla. In mezzo ci trovo quel dio a cui si appella, insieme a una famiglia che ha solo la speranza in una giustizia divina come alleata, più che la scienza. La verità è che l’autentica protagonista di questa drammatica narrazione è la solitudine di C., penso, la “voglia di perdersi”, mi scrisse tempo fa, parlandomi della sua paura e dolore mascherati.
Abbiamo avuto diversi problemi di comunicabilità in passato, io e C. Oggi credo che sia perché provasse rabbia nei confronti del mio naturale distacco dalla realtà, la mia incapacità di vederla in tutta la sua durezza. Ci siamo ritrovate, però. Mi definisce una sognatrice, ancorandosi a quella poesia che costantemente cerco nel circostante e, al contempo, furiosa di non riuscire a farmi aprire gli occhi sulla bruttura, che inevitabilmente esiste.
Gli Altri sono la mia missione, è il mantra che ripeto costantemente mentre tento di spiegare che è solo negli Altri che mi rispecchio, incapace di guardarmi. E ora che non so comprendere C., chiusa nel suo sguardo combattivo e infuriato, che tenta di aggredire l’irrimediabile, mi sento spaesata. Vorrei dirle che presto sarà tutto finito, ma chi può dirlo? Vorrei dirle che sarei pronta a barattare la mia vita, quella che tanto maltratto e rinnego. Ma si arrabbierebbe e sarebbe ingiusto e indelicato. Tuttavia, l’ho pensato più volte di quante ne ho confessate persino a me stessa. E se ancora sono qui, è anche per la speranza che almeno a C. sia riservato il lieto fine, a cui solo ora – da quando non comprendo il male di C. – ho cominciato a credere.
***
«… E rimproveravi chi non prende la vita a morsi, come facevi tu», ascolto dal pulpito di una chiesa in cui sono entrata senza nemmeno fare il segno della croce. Questo è il tuo dono, anche per me, mi piace credere. Poi guardo l’enorme figura del figlio del Creatore, che risplende alle tue spalle coperte di bianco, come il resto del tuo corpo terreno. Lo scruto a lungo, cercando e riuscendo a riprodurre la rabbia del tuo sguardo durante la Lotta e penso: se dio esiste, ci deve il dono di una resurrezione.
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