Racconto di Marina Sparpaglione
(seconda pubblicazione)
L’ho insultata. Non so dire quante parolacce io abbia detto, cose pesanti, brutte, che lei non si merita. Mentre i suoi cani, spaventati, guaivano, e qualche gatto soffiava, gonfiando la coda.
Io l’amo da una vita, da quando arrivava sual borgo accompagnata dal suo fidanzato, uno di quei tipi milanesi che la portava a trovare i genitori nel weekend, solo perché era pazzo di lei, come me, quasi come me, ma che al borgo non sarebbe sopravvissuto per più di due giorni consecutivi. Lei sembrava non accorgersene che erano così diversi, che il loro amore non avrebbe avuto un futuro. Non che io nutrissi ambizioni di una storia tra di noi, avevo una quindicina d’anni piu di lei, ero un povero bifolco di paese e non avevo nulla da offrirle. Ero però in grado di capire se lei poteva essere felice con un altro uomo. Ma quello lì… proprio no, ecco. Sono stato amico dei suoi genitori, poi lo sono stato di lei. Si tratta di quella assistenza vicendevole, che viene naturale quando vivi in un piccolo borgo e che col passare del tempo ti fa sentire parte di una piccola e solidale comunità. La conosco fin da bambina, quando la sua casa al paese costituiva la casa delle vacanze per lei e la sua famiglia. Come tutte le persone che vivono e lavorano in una città, per loro la casa al borgo era una piccola oasi di pace. Hanno trasformato la casetta in un gioiellino. Il padre arrivava al venerdì sera e lavorava con mattoni, zappe, forbici, carriole, martelli, cesoie, fino alla domenica sera. Si era messo a fare un piccolo orto, aveva acquistato una vigna e sembrava felice. Quando aveva raggiunto la pensione aveva abbandonato Milano ed aveva trascinato a vivere lì anche la moglie. Elena andava e veniva, con il macchinone del fidanzato milanese, abbellendo di volta in volta le piccole stanze con gli oggetti che lei e quello sciagurato compravano durante le vacanze in posti esotici, in giro per il mondo. La casa, nel frattempo, si era popolata di cani e di gatti.
Però per nessuno di noi due la storia della vita era stata scritta in modo lineare. Il maledetto fidanzato milanese ad un certo punto era scomparso, più o meno quando lei si era ammalata. Era ancora troppo giovane per tutto quel dolore. Sono cominciate le terapie, gli interventi. L’ho vista perdere i capelli, gonfiarsi, sgonfiarsi, perdere i capelli di nuovo. Le ho visto perdere la giovinezza, insomma. Stava al borgo dai genitori in quel periodo. L’accompagnavo io in ospedale per le visite, per i ricoveri o per un controllo. Non vorrei dire una bestemmia, ma ero quasi felice: facevo quello che avrebbe dovuto fare un compagno, un marito. La nostra amicizia è diventata una cosa seria, in quei giorni disperati.
Siamo sopravvissuti a quel periodo, poi alla morte dei suoi genitori, allo spopolamento del borgo, ed infine mi sono ammalato anch’io. Ho cominciato la dialisi ed ora è lei che a volte accompagna me. Sono andati e arrivati altri gatti ed altri cani. Lei abita al borgo oramai, lavora da casa, io sono in pensione da un pezzo. C’è da morire dal ridere: due ammalati che si fanno compagnia. Lei non mi ha mai raccontato del suo maledetto fidanzato e del perché fosse sparito. Non mi ha mai nemmeno parlato del suo male, non lo nomina mai, così come non mi ha mai parlato delle sue paure. Parliamo, invece, di medicine generiche, di boschi e piante, e di cani e gatti naturalmente. È sempre bellissima. Anche quando le intravedo la lunga cicatrice che sporge dalla scollatura, anche se sulla camicetta si intuisce un incavo che lei non si cura di nascondere.
Siamo vecchi ormai e sono invecchiati anche i cani. Io ne ho una, Pace, oramai è mezza sorda e fa pipì da tutte le parti, perché è cardiopatica ed i veterinari me la imbottiscono di diuretico. Faccio fatica a gestire questa situazione e mi intristisco a pensare che sarà l’ultimo cane della mia esistenza. Io ed Elena ci siamo giurati di prenderci cura dei nostri animali, di sistemarli, se uno di noi due morirà. Quando non è giornata di dialisi io e lei prendiamo Pace e le sue due cagnoline e ci incamminiamo verso i boschi. Il passo è lento, non solo per noi, ma per i tre cani. Non avrei mai immaginato, tanti anni fa, di finire la mia vita passeggiando con quella splendida ragazza che veniva dalla città. I cani sono liberi, senza guinzaglio, quando corrono ed annusano nei boschi. Lei mi dice sempre “mettile la pettorina”, perché Pace è sorda e non sente i richiami, non si accorge dei pericoli. Dice “così fai meno fatica ad agguantarla se si allontana e non ti sente”. Povera Pace: non ha mai messo un guinzaglio nella sua lunga vita, mi sembra un insulto metterle un laccio proprio adesso.
Io ed Elena ci scambiamo piccoli doni e piccoli favori. Io ho le chiavi di casa sua e lei quelle della mia. Non si sa mai, ci diciamo. Mi è sembrato naturale dirle di sì quando mi ha chiesto di badare ai suoi cani per una settimana: voleva andare al mare, non lo faceva da anni. Era eccitatissima. Ha fatto una valigia enorme, l’ha riempita di vestitini che qui non mette mai, qui gira con vecchi calzoncini e magliette sdrucite. Il morso della gelosia mi ha punto, l’ho immaginata truccata ed elegante nei ristorantini in riva al mare, in costume sulla sabbia, l’ho rivista con il suo corpo di ragazza, sovrapposto a quello di adesso, che si abbronzava. Ma l’ho aiutata. Ho sfamato i suoi cani ed i suoi gatti, ho aperto e chiuso le persiane, le ho aggiustato il ventilatore di casa che era tutto sbilenco, le ho mandato whatsapp con le foto di tutta la sua tribù, ho innaffiato il giardino. Mi telefonava e mi chiedeva “e Nene ha mangiato? E Vereda sta bene? e Questo? e Quello?” Mai un “e tu come stai, Piero?” Poco importava. Io e Pace non vedevamo l’ora che tornasse a casa.
E finalmente è tornata, è salita al borgo con la corriera. Io, Pace e le sue cagnoline eravamo tutti là, alla fermata, un piccolo ed acciaccato comitato di benvenuto, che non vedeva l’ora di farle festa. Lei è scesa, ha gettato i bagagli a terra e si è inginocchiata ad abbracciare le cagnoline. Ma urlava, urlava così forte, certo per la gioia di rivedere i suoi animali, o forse erano i suoi gesti scomposti, esagerati e fuori luogo, fatto sta che Pace si è spaventata, è corsa via, mentre Elena continuava ad urlare ed io le dicevo “non gridare, spaventi i cani!”, ma lei ha continuato senza nemmeno dirmi “Piero, ciao, come stai?” La corriera intanto aveva fatto inversione per ridiscendere al paese a valle e non si è accorta di Pace, che le correva incontro, mentre io la chiamavo “Pace!”, ma lei è sorda ed era senza pettorina, non riuscivo a fermarla. La corriera però si è accorta di me, che correvo per prendere il mio cane, e per fortuna ha frenato. Ci è mancato poco, ecco. Allora mi sono uscite dalla bocca parole che non voglio nemmeno ripetere, di cui mi vergogno, mi pento con tutta la mia anima. Sono stato una bestia, e le dicevo “è tutta colpa tua, urli come una pazza, hai spaventato il mio cane, il MIO cane, il MIO cane!”, urlando più forte di lei. Le parole uscivano dalla mia bocca, mi avvicinavo a lei, la spintonavo, e lei, inorridita, cadeva a terra, abbronzata, tra i suoi bagagli. I cani guaivano, anche Pace, ed i gatti del paese soffiavano.
Sono scappato a casa. Ho pianto come un bambino. Dio fulminami, dicevo, amore mio perdonami, pensavo. Dopo un’ora lei è venuta a bussare alla porta, chiusa con il catenaccio, non le ho aperto. Era ferita, furibonda. Mi gridava da dietro la porta “Apri, come ti permetti? La colpa è tua, Pace è sorda, non poteva essere la mia voce ad averla spaventata! Ah! se se tu le avessi messo la pettorina! “
Ho passato una notte spaventosa, Pace, l’inconsapevole oggetto del nostro litigio, mi ha scodinzolato intorno per tutto il tempo, lasciando scie misteriose di pipì per tutta la stanza, mentre io smaltivo la rabbia e la paura, mentre la gelosia allentava la presa. Verso l’alba ho pensato che ne avevamo passate troppe io ed Elena per fermarci davanti ad un simile episodio. Avevo bisogno di lei. Lei aveva bisogno di me. Dovevo andare a chiederle di perdonarmi, non sarebbe accaduto mai più. Sono uscito con Pace, sono risalito per la stradina in cui si trova la casa di Elena, sperando di trovarla in giardino per proporle un giro nel bosco. Lei era già lì, dietro al cancelletto, con un paio di calzoncini sbiaditi ed una maglietta con un buco ed una patacca. Gli occhi mi hanno lanciato fulmini, poi lo sguardo si è fatto stupefatto, la bocca aperta senza un suono. Ha guardato la pettorina rosa di Pace, che scodinzolava pisciando un po’ dappertutto. Poi ha guardato me con commiserazione, ma ho immaginato un piccolo, debole sorriso. “Andiamo nel bosco” mi ha detto, aprendo il cancelletto per fare uscire le cagnoline.
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Che racconto bello e avvincente , tenero e vero come spesso accade nella vita !! Le descrizioni fanno venire i brividi tanto sembrano reali !! Grazie
Complimenti Marina, molto bello anche questo tuo racconto, come del resto tutto quello che scrivi.
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