Racconto di Giovanni Capotombolo

(Prima pubblicazione)

 

Io e mio fratello siamo nati lo stesso giorno ma ci corriamo quattro anni. Ogni 11 aprile papà faceva in modo di stare a casa, anche se era un giorno feriale, per aiutare la mamma a preparare la nostra festa. Ci volevamo bene io e mio fratello, forse io gli volevo più bene di quanto lui ne volesse a me.

La prima volta che ha saltato un compleanno è stato per i suoi diciassette anni, io ne compivo tredici. I nostri genitori ci rimasero male perché non li aveva avvisati e loro non se lo aspettavano. Non avevano capito che quel divario era diventato insanabile e trascorrere una giornata con dei ragazzini delle medie per adolescenti svegli come mio fratello e i suoi amici era inconcepibile, oltre che insopportabile.

Ancora avevamo la stanza in comune. Lui il fine settimana tornava a casa tardissimo e faceva un gran macello. Si svegliava spesso e andava in bagno, lasciandolo un porcile. Io ho sempre avuto il sonno leggero e lo sentivo in ogni suo movimento di quelle notti tormentate. Quando i miei non c’erano mi chiedeva di andare in sala a giocare ai videogiochi e lui si chiudeva in camera con gli amici o, più raramente, con una ragazza.

Io accettavo sempre, li sentivo ridere e scopare, questa cosa mi faceva stare bene. Poi quando uscivano, con gli occhi rossi e sottili, i capelli spettinati e l’andatura ciondolante, mio fratello mi faceva sempre una carezza sulla testa e mi diceva “Grazie fratello, non aspettarmi alzato, eh!”. Una volta la ragazza di turno mi ha dato un bacio sulla guancia.

Aveva cominciato a suonare la chitarra, teneva a casa quella che gli aveva prestato un suo amico. “Tu la suoni meglio” avevo sentito che gli diceva quando mio fratello voleva rendergliela. L’anno dei suoi diciassette anni e dei miei tredici il nostro compleanno capitò nel lunedì di Pasqua. Il giorno prima eravamo stati a pranzo dai nonni e avevamo mangiato le cose che cuoche brave come mia nonna sanno cucinare a dovere: frittata con asparagi e ventresca, agnello fritto e crostata ricotta e cioccolata.

Lui sbuffava e guardava il cellulare, io non l’avevo ancora e stavo a sentire gli adulti solo perché non parlava mio fratello, altrimenti avrei ascoltato lui. Quando siamo andati via da casa dei nonnii nostri genitori sono andati alle bancarelle che ogni anno allestiscono in centro, io e lui non avevamo voglia di andarci e ci siamo fatti lasciare a casa.

Si è messo subito in terrazzo a fumare. Io lo osservavo dalla camera, seduto sul letto. Aveva uno sguardo più maturo della sua età, stringeva gli occhi a ogni tirata e il fumo che gli usciva dalla bocca era denso e abbondante. Rientrò e si buttò sul letto anche lui. Dopo pochi minuti ha cominciato a parlarmi, molto lentamente.

“Quando non sai cosa fare prendi la chitarra e suoni. E stai bene, capito? Alla peggio è già passato del tempo e ti sei sfogato, anche con te stesso, capito? “Mi guardò appena un secondo per capire sé stessi ascoltando. -Psichedelico eh? – Io annuì e cercai di non sorridere, perché quando stava in quel modo e io ridevo poi lui non parlava più. “Quando con gli altri non sappiamo bene cosa fare ci corriamo dietro. È un modo come un altro per passare il tempo, anzi è più forte degli altri: spaccaproprio, cazzo. Capito? “Altro sguardo sfuggente. “Che poi suonare è meglio che corrersi dietro, eh.”. Sbadigliò e chiuse un momento gli occhi.  “La settimana scorsa abbiamo invitato un po’ di gente in sala prove, così, per vedere che effetto faceva suonare davanti a qualcuno, capito?” Pausa anti narrativa di una decina di secondi. “Eh, solo che eravamo troppo stonati e anche parecchio emozionati, capito? Abbiamo sbagliato tutte le note alla fine della prima canzone, eravamo tutti fuori tempo, ci siamo fermati, non c’era più il basso, c’ero solo io che schitarravo e basta e la gente che rideva.”. Si fermò di nuovo e io pensai che la storia fosse finita e che dovessi elaborare qualcosa da dire, perché lo vedevo serio. Invece poi gli era tornato il sorriso. “Alla fine però ci hanno applaudito. Cioè, quando hanno capito che avevamo finito”. Rise fragorosamente.  “Che poi oh, un nostro amico è stato super carino: è venuto da me alla fine e mi ha detto ‘Io sono contento di essere venuto a sentirvi, che sennò rimanevate così, una cosa bella che non vedeva nessuno… e, quindi, era come se non ci fosse.’  Tornò di nuovo serio. “Forse dovremmo aspettare un po’ prima di suonare dal vivo…oppure mollarci proprio, perché facciamo troppo schifo, capito? E cercare altre strade, più toste.”

In quel momento rientrò mia madre, da sola. Chiuse la porta e venne in camera nostra. Tirò fuori una busta. Avevo detto a mia madre che mi servivano i calzettoni da sport, quelli di spugna. Lei me ne aveva portato un gruppetto da tre, del tipo che trovi giusto ai mercatini, alle bancarelle o comunque venduti dagli ambulanti. Le dissi che erano strani, erano completamente colorati di blu e rosso; di solito quelli da sport sono bianchi, al massimo con una striscetta colorata. Lei mi rispose che il tipo aveva solo quelli.

“Ce n’era solo uno che li vendeva?” – Chiesi io.

“No, ma lui mi sembrava non stesse vendendo niente.” – E accennò un sorriso cercando corrispondenza nella mia espressione.

Li presi, ringraziando, li posai sul comodino e andai in bagno. Lasciai la camera perché sapevo che sarei scoppiato a piangere. Ogni volta che nostra madre aveva un gesto di generosità verso qualcuno meno fortunato era come se, credo senza saperlo, ci insegnasse quanto fosse doloroso fare la cosa giusta.

Uscito dal bagno c’era mio fratello maggiore, anche lui con gli occhi rossi, ma forse nel suo caso non per le lacrime. Mi abbracciò e mi disse: “Non ti offendi se domani salto la festa, vero?”

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