Racconto di Alessandra Rampoldi

(Prima pubblicazione)

 

Ieri sera, quando sono rientrato dal lavoro, ho visto due valigie all’ingresso.

Laura era nella camera del bambino. È lì che dorme ormai da tre mesi. Non riesce a starmi vicino.

La capisco. Nemmeno io ce la faccio a stare con me.

Mia madre mi ripete, ogni giorno, che insieme possiamo superare questo momento.

«Siete giovani», mi dice, «avete tutta la vita davanti.»

Ma quale vita?

Mi sono tolto la giacca. Ho percorso il corridoio. Laura stava seduta sul bordo del letto. Dovevo fare un passo, uno soltanto. Ma poi ho notato che aveva le scarpe ai piedi. Quelle scarpe mi urlavano che il tempo era scaduto. Niente supplementari.

Sono andato in cucina. La tavola era apparecchiata, ma solo per me. Ho pensato di prendere un angolo della tovaglia e tirare. Far volare via tutto. Sentire il rumore cacofonico delle stoviglie e dei vetri che si frantumano. Qualcosa che riempisse il vuoto e a cui si potesse poi rimediare.

Per il resto non c’è rimedio.

È accaduto tre mesi fa.

La sveglia è suonata alla solita ora. Ho sentito i rumori che arrivavano dal bagno. Laura cantava una filastrocca mentre cambiava il bimbo sul fasciatoio. Lei è cresciuta con queste canzoncine strambe che le cantava sua nonna.

«Pin pincavalin, sota al pè del tavulin..» Matteo le faceva eco lanciando dei gridolini acuti.

Mi sono alzato dal letto. Li ho incrociati mentre andavano in cucina per il biberon del mattino. Lui mi ha allungato le braccia. Io gli ho fatto la faccia da deficiente che lo fa ridere forte e trattenere il respiro. Laura dice che queste apnee le mettono ansia. Le ritorna davanti agli occhi l’immagine del pesce rosso che da bambina le era caduto nel lavatoio di marmo mentre cambiava l’acqua alla sua boccia di vetro.

Ho preso il caffè al volo e poi Laura ha messo il bimbo fra le mie braccia. Lo porto io all’asilo, ogni giorno. Il cappellino con la visiera gli era sceso sugli occhi e l’ho sollevato con il mio naso. La gioia che ho letto nel suo sguardo mi ha fatto sentire come chi riceve un regalo e sa di non averlo meritato.

Quando Laura mi ha detto che era incinta non ho fatto salti di gioia. Sia lei che io avevamo appena avuto una promozione sul lavoro, il che significava meno tempo da dedicare al resto. Quando mi ha mostrato il risultato del test di gravidanza me ne sono uscito con una frase da idiota: non è possibile.  Ma è quello che ho pensato: non ora, non possiamo permettercelo.

Ho capito che era delusa e allora ho cercato di rimediare con un’altra frase, non meno sciocca.

«Non è possibile. Pensa a Giulia e Marco. Ci stanno provando da più di un anno e ancora niente.»

Laura l’ha presa male. Si è chiusa nel bagno e l’ho lasciata così. Non sono riuscito a trovare le parole giuste. O meglio, le avevo ma erano in fondo a un pozzo, legate a un macigno. Del resto è così che mi hanno cresciuto. Quando ero piccolo e mi capitava di ammalarmi, mia madre mi faceva alzare dal letto prima che mio padre rientrasse dal lavoro, anche se avevo la febbre. Dovevo vestirmi e sedermi a tavola per la cena, come se niente fosse.

«Sei il nostro ometto e devi essere forte, come papà», mi diceva lei mentre mi rifaceva il letto perché lui non si accorgesse di nulla. La sua voce suonava dolce ma le mani erano nervose mentre liberava i bottoni del mio pigiama dagli occhielli.  A tavola faticavo a stare seduto con la schiena dritta, come lui esigeva, gli occhi volevano chiudersi e mi sentivo lo stomaco in subbuglio ma poi incrociavo lo sguardo spaurito di mia madre e tenevo duro.

Ma quella mattina, sul pianerottolo, davanti agli occhi di mio figlio così pieni di fiducia, mi sono commosso. Ho pensato che insieme potevamo scrivere una storia tutta diversa.

Mentre scendevamo le scale, ho aspirato il suo odore pulito. L’ho sistemato nel seggiolino, poi ho avviato l’auto. Alla radio trasmettevano il notiziario. Quattro missili russi avevano colpito il porto di Odessa. L’estate in corso risultava essere una delle più calde degli ultimi quarant’anni. Ricordo di aver cambiato canale. Le voci di un tormentone estivo hanno riempito l’abitacolo. Ho pensato alle migliaia di ragazzi che si sarebbero scatenati al ritmo di quella musica, nelle località di vacanza. Finalmente tutti insieme dopo l’isolamento della pandemia.

Battevo il tempo sul volante.  Il mio ultimo pensiero, guardando il cruscotto, è stato: sono appena le 8.30 e già abbiamo 25°.

Sono arrivato in ufficio, di sicuro in anticipo sulla solita tabella di marcia. Infatti ho incrociato Franca che stava vuotando i cestini della carta. Mi ha raccontato che, da qualche mese, fa le pulizie la mattina presto perché la sera deve aiutare la badante a mettere a letto sua madre.

Ho annuito, per tagliare corto. Io sono fatto così, non do confidenza alla gente né la ricevo. Se fossi stato come Luca, il mio vice, Franca forse mi avrebbe detto:

«Dottore, oggi è mattiniero.»

E io le avrei replicato: «Perché, che ore sono? “E magari tutto sarebbe andato diversamente. Invece solo un cenno del capo e via. Con la testa già dentro il lavoro.

La mattina se ne è andata in un lampo. Una telefonata dietro l’altra. Nemmeno una pausa per un caffè. Alle 13 il mio cellulare ha squillato. Quando ho letto sullo schermo il nome di mia suocera ho pensato di non risponderle.

Di sicuro vuole rinnovare l’invito per il pranzo della domenica. Ho pensato. Non mi andava di assecondarla. Non sopporto i pranzi di famiglia. Lo faccio solo per Laura perché lei ci tiene. Il cellulare continuava a squillare. Alla fine ho ceduto.

«Scusa Carlo, sono arrivata all’asilo per prendere il bambino, come d’accordo, ma Matteo non c’è». Mi ha subito investito con le domande.

«Il bambino è malato? Laura è rimasta a casa con lui? Perché non mi avete avvertito?»

In quel momento il mio cervello era un contenitore vuoto e dentro c’era una palla di gomma che rimbalzava in ogni direzione. Annaspavo cercando una risposta possibile a quelle domande, ma senza trovarla.

La prima cosa che ho pensato è che qualcuno l’avesse portato via. Dopo il pranzo, alcuni bambini lasciano l’asilo mentre altri rimangono fino alla merenda. In quei momenti c’è sempre una certa confusione. E se un estraneo si fosse spacciato per uno di famiglia per rapirlo? Con quelle classi così numerose, una maestra deve avere cento occhi per controllare ogni cosa. Ma non si può portare via un bambino così, senza nessun accordo. Però, magari in un attimo di distrazione, poteva essere successo.

Ero nel panico. I pensieri mi si accatastavano nella testa.

«Irene, passami la maestra! Subito», ho urlato.

Nell’ufficio intanto era sceso il silenzio. Le impiegate alle scrivanie mi fissavano. Il ronzio del condizionatore era diventato assordante.

«Sono la maestra Carla, mi dica». Una voce tranquilla ha risposto all’altro capo del cellulare.

Per un attimo ho creduto che si aggiustasse ogni cosa.

«Dov’è mio figlio?»

«Qui da noi non è mai arrivato.»

«Ma cosa sta dicendo? L’ho accompagnato io».

Lo faccio ogni giorno. Tutti i giorni, tranne il sabato e la domenica.

Cercavo di ripassare le azioni della mattina. Riavvolgevo il nastro. Il percorso con l’auto, quei dieci minuti di strada che collegano la mia abitazione all’asilo. Sono uno dei pochi papà che portano i bimbi al nido prima di andare al lavoro. All’arrivo trovo sempre le mamme che approfittano di quei momenti per scambiarsi informazioni. Ma io non ho l’abitudine di trattenermi a chiacchierare. E non mi interessa fare il simpatico. Un bacio al bambino, qualche frase di circostanza con la maestra. Poi fuori a recuperare la macchina e via.

La maestra Carla, al telefono, ha poi aggiunto qualcosa che, al momento, non ho capito.

«Scusi può ripetere?» Le voci dei bambini, sullo sfondo, si sovrapponevano alla sua.

«Ha controllato sull’auto?»

«Come?»

«Le dicevo dell’auto. Provi a controllare sull’auto».

Non ricordo nemmeno come sono arrivato al parcheggio. Quando sono uscito dall’edificio il caldo atroce mi ha investito come un tir. Ero lì, in mezzo a quella distesa di cemento, senza un albero, senza vita.

La mia auto era dove l’avevo lasciata.

Quella mattina io, all’asilo, con il mio bambino, non sono mai arrivato.

Ieri sera Laura mi ha lasciato. La porta d’ingresso accostata piano, per non aggiungere altro male.