Racconto di Maya Veronica Bassan
(Prima pubblicazione)
Negli ultimi due mesi ho lasciato che le mail s’impilassero nella casella elettronica. Un vezzo che non mi sarei dovuto concedere. Quella che era iniziata come un’innocua manciata di missive ignorate presto si era trasformata in una catasta da un migliaio. Il capo strilla spesso, insiste sulla risposta prioritaria, “Su, su, celeri! — dice — dobbiamo fidelizzare il cliente!” La zeta esce strusciata contro gli incisivi superiori, sibila come un serpente ma calca la pronuncia sulla parola Fides: lealtà, impegno, garanzia. Il nostro motto.
Ogni mattina mi reco a lavoro in metro. Compresso nella massa di studenti e pendolari, stretto nel mio completo scuro, penso: lealtà, impegno, garanzia. Ogni mattina scendo dalla metro e a metà scala accendo una sigaretta. Impiegato junior all’Ufficio Generale da due anni e otto mesi. Un gioiellino, rasato, pettinato, impeccabile. Laurea in economia, ventiquattrore nera in mano e la carica di un Marines alla sua prima missione, semperfidelis o simile.
Guardo l’orologio, dieci minuti al timbro del cartellino. Penso alle mail che già si stanno accumulando, una, due, cinque… Le destinerei direttamente nel cestino, se potessi! Ma i clienti mi sono affezionati, gli anziani soprattutto, quelli che lasciano in gestione il danaro per non doversene preoccupare, quelli che arrivano timorosi e impacciati, piegati sotto il peso della pressione familiare a insistere nel voler ritirare quel piccolo gruzzolo accumulato in anni di fatiche, lodando la sicurezza domestica e incolpando la crisi del mercato, non la cupidigia del sangue del loro sangue. È risaputo che i materassi falliscono solo con acqua e fuoco mentre le banche funzionano grazie a macchinazioni demoniache. Chissà cosa direbbe Robert Frost se gli proponessi questa terza possibilità…
Il suono delle sirene mi risveglia dal torpore metropolitano ancor prima di giungere nei pressi del palazzo. Quella mattina, però, non mi sento una nullità davanti la grande porta nera, retta da finte colonne doriche che si staglia, immensa e cupa, nella via trafficata. Il bianco delle mura riflette i lampeggianti delle sirene, carabinieri, ambulanza ed un gran via-vai di curiosi. Mi avvicino a uno degli agenti “che è successo? Qui ci lavoro, ecco il mio badge”. Lascio scivolare l’occhio alle sue spalle mentre questi mi liquida con un cenno della mano indicando l’ingresso laterale. Allungo il collo e la vedo. Il caschetto platino macchiato di rosso e lei riversa prona, con la testa a penzoloni e i ferri della palizzata conficcati nel collo, nella pancia e nella gamba destra, mentre la sinistra pende con angolazione innaturale. I soccorritori stanno discutendo, impiegati nel delicato compito di liberare le carni delle punte di metallo. Lavorano con la nonchalance tipica di quelle persone che trasudano esperienza e hanno un folto pelo sullo stomaco.
“O, mi t’el disi che l’è presipidada. Nisun che s’ammassa volontariamente g’hatucc ‘sta mira.”
“No, fidate che è ’n omicidio. Uno che cade per errore mica salta per allontanarse dal muro, se spiaccica. Guarda ‘a distanza tra a’ finestra d’ufficio e ‘a ringhiera.”
Come indicatomi dall’agente giro intorno l’edificio e passo dall’ingresso laterale. Lascio che la porta si chiuda alle mie spalle e tiro un sospiro di sollievo. M’incammino verso gli uffici ma a metà corridoio avverto un mancamento e mi appoggio al muro, lasciandomi scivolare. Il capo è morto? Esalo forte. Il capo è morto! Parole s’affollano nel cranio, pulsano contro le meningi, sovrastano le sirene e violente si fanno strada in gola ed escono come urlo strozzato: “Il capo è morto!”
Tossisco e mi umetto le labbra, “Il capo è morto”, sussurro. Mi alzo, sistemo la camicia nei pantaloni, inspiro. Saggio l’aria, oggi ha un sapore diverso.
“Il capo è morto”, ripeto.
Il capo è morto e le mail posso rimandare ancora per un altro giorno.
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