Racconto di Davide Cibic

(Seconda pubblicazione)

 

“Ma che belle montagne avete in Friuli” esordisce il camminatore milanese, dall’accento vago ma non trascurabile, all’apprendere la nostra località di provenienza.

E dire che mi sarei aspettato snocciolasse gli attributi del Monviso e del Bernina, o almeno dei tre colossi altoatesini, insomma di qualche celeberrima vetta ben più prossima alla propria regione geografica.

Si discorre nel seno della val Viola, lungo quella deliziosa mulattiera che porta all’omonimo rifugio. Ci rimpalliamo impressioni e idee, tra sole e vento, e sogniamo gli alpeggi più reconditi e i profumi delle cime.

“Le vostre sono montagne aspre, selvagge, irraggiungibili, lo so. Sono stato dalle vostre parti” prosegue.

Mi viene in mente l’ascesa al Montasio, più e più volte tentata, e il baratro che si spalanca nei pressi di cima Vert, e che ti avvolge e ti ristora tra quelle pareti che paiono eterne.

“La vostra è una terra di confine: quanti conflitti, quanta storia…”.

Già, è forse per questo che le nostre montagne sono tra le più ingrate? Del resto, tra dominazioni e disastri naturali, tra frontiere di guerra e difficili impasti linguistici e culturali, che si siano adattate palesando anch’esse le spigolosità proprie della nostra Regione?

È in fondo amabile parlar di confini, che altro non sono se non le arterie dell’umanità, una sorta di tracciato reticolare che corre sulla superficie terrestre, ne marchia boschi e mari, sabbia e dirupi, un ragnatelo che tutto avvolge, uomini e donne, prede e predatori.

Dicono che i confini sorgano per governar le differenze, per spartir le proprietà, per inscatolare lingue ed etnie.

“Sono i confini a creare le disuguaglianze, e non viceversa” confido invero al mio interlocutore milanese “Se non ci fossero muri e dogane, saremmo tutti uguali, pur nelle nostre mille diversità…”.

Quale miglior luogo della nostra meravigliosa Regione, della nostra mirabile terra di confine, per suggerire, innovare, sperimentare?

“Sì, è vero” ribatte lui “ma a me piace vedere il confine come qualcosa di positivo. C’è un confine? Allora lì è tutto più bello: c’è più cultura, confronto, dibattiti, forme d’arte. Insomma, il confine non come qualcosa di sterile e deleterio, ma come un terreno da coltivare.”.

Già, un terreno che il demone della globalizzazione vorrebbe invece inghiottire e con esso le diversità appostate su quei confini, che sono invece la carne e il sangue della vita stessa. Senza diversità non esisterebbero nemmeno i pianeti, e i loro campi magnetici; vi sarebbe solo uno sterile nulla.

Sono tutt’altro che sterili invero i nostri territori: dai Carni ai Veneziani, dai Longobardi agli Austriaci, è innegabile vi sia un substrato fertile, che illumina i nostri colli e i nostri borghi e li ammanta di cultura e bellezza.  È una sorta di organismo pulsante la nostra Regione, che però si dipinge anche di colori oscuri non appena si rievochino le pene e le tribolazioni, l’empietà e gli orrori, segnatamente il fascismo e il suo patetico tentativo di appiattire tutto. Le montagne sono il luogo in cui si è combattuta la guerra e non potrebbe essere altrimenti, perché la montagna è il simbolo della diversità, il più lucente. In montagna nulla è uguale a sé stesso: ansiti, forme, odori, ombre e brillii mai si somigliano, eppure giocano a rincorrersi e, meravigliosamente, si impastano tra loro.

Non meno lucente della montagna, quale simulacro di libertà, è il nostro Carso: là, su altari, pietre e abissi calcarei, si depositano le memorie e i simboli di sofferenze indicibili.

“Ho camminato a lungo sul Carso triestino e su quello goriziano e poi nelle valli del Natisone, e poi ancora nella bassa friulana, tra osmize e frascjis” si esalta l’uomo milanese che non articola bene né in sloveno né in friulano, ma rimane nondimeno gioviale e sognante.

Già, sovente almanacco di tragitti tra doline e spiagge, tra distese di granturco e valli carniche, veri e propri tratturi che conducano le idee a confrontarsi, a rimpinguarsi, in un florilegio di mille colori, un superbo albero fecondo, i cui rami non possano esistere a sé stanti ma unicamente in un sodalizio con tutti gli altri. E non fatico a disegnare dialoghi ideali tra una stara ženska di Repentabor e una siore di Clauzetto, tra un vecio brivez di Servola e un pescaòr maranese.

“E poi” incalza il mio interlocutore “sono sicuro che tanti piccoli tesori nemmeno li conoscete. Chi conosce il sito di Castelraimondo? Le Pozze Smeraldine? E la Val Resia, chi può dire di conoscere veramente la Val Resia, e la sua magia?”

Già, la magia della Val Resia, chi la conosce? Mi sono spesso approssimato a quelle atmosfere, a quell’aurea quasi fatata, ai silenzi di quei boschi, evocati di recente da un’anziana signora originaria di San Giorgio di Resia.  Del resto anch’io ho sangue resiano e la mia fanciullezza è grata al Canin e al profilo materno dei suoi bastioni, che ancora cullano le mie notti.  Ricordo come, all’apparir della prima neve, si diceva che il Canin mettesse la camicia bianca e ne ero consolato, perché quel manto bianco scacciava le due Babe dalla terribile forma aguzza. E come dimenticare Sella Sagata e le pendici del Monte Musi, e i suoi misteri e leggende, e i racconti che si facevano, di come il Barman sgorgasse sempre gelido dalle sue rocce e di come fosse impossibile ispezionarne le cavità, perché la fiamma delle lampade a olio, quasi per magia, finiva sempre per spegnersi.

Sublime è il ruolo della magia che sa fondere i metalli vili ed elevarli a rango di purezza, sa mescere ingredienti e sostanze diverse per farne medicamenti e rimedi, sa svelare le stelle e la terra. Cosa c’è di meglio della magia per osare a coniugare lingue e culture attigue ma distanti e farne fervido zampillo, roccia magmatica, farne viepiù un sito della stessa turchese trasparenza con cui si manifesta la sorgente del Gorgazzo?

Dal Gorgazzo quindi fino alle primizie della Rosajanska Dolina, l’incanto si dissemina ovunque, quasi indisturbato. Non incontra ostacoli o requisitorie, non incontra confini.

Tale è anche il percorrere a grandi falcate i campi tra Ontagnano e Felettis, vezzo a cui ricorro ostinatamente, perché mi pare di essere una pedina che mani invisibili giocano nel tavoliere friulano. Do il mio benestare alla partita, anche perché nei pressi di Ontagnano vi è una sorta di dosso o sommità, di modestissima elevazione, che sono solito visitare all’imbrunire. Là abbraccio le mie sagome preferite: il Krn e il Mangart, le sentinelle; il Matajur, che si fa sempre più vicino al calar delle tenebre; e naturalmente il Nanos, dal profilo netto e marcato che pare sollevarci verso l’universo.

Da quel dosso amo quindi osservar la nostra terra e le sue mille sfumature e non mi turba affatto quel roboante sentiero d’asfalto che corre lì nei pressi e il suo brulichio di motori. È in fondo un tramite privilegiato tra le nostre culture: se si spostano le persone, fluisce nuova linfa, di continuo, e le idee veleggiano indisturbate verso quei lidi mitici dove si conserva, si crea e si riedifica.

E dev’essere un creatore, forse un poeta che ha rinunciato a comporre versi per mettersi a dipingere, colui che al crepuscolo tratteggia quel profilo, di deliziosa irregolarità, delle nostre montagne, una linea che descrive i nostri confini e che richiude la nostra Regione in uno scrigno che ha i colori di un rosso sfumato, di un sole che se ne va ma solo per poter ritornare con celere passo.

L’uomo milanese e io terminiamo l’escursione appaiati, i suoi occhi che luccicano, ebbri di emozioni allo spigolar tra le bellezze della nostra terra di confine. Lo ringrazio: senza volerlo, al solo rievocare tali meraviglie e le vie che da loro conducono mi ha fatto palpitare come non mi succedeva da un po’.

Penso che molti avrebbero bisogno di una mano che indichi tali vie: sono là, davanti a noi, ma non ce ne accorgiamo se qualcuno non ce le mostra.

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https://booko.com.au/9788868147723/CRASH-e-altri-racconti

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