Racconto di Antonella Grassi
(Prima pubblicazione)
Muro, parete, armadio, luce. Ma anche armadio, luce, muro, parete. Oppure luce, muro, parete, armadio. Ci sono tre posizioni possibili, e vanno tutte bene. L’importante è non dare la schiena alla luce.
L’intercapedine è della mia misura, abbondante. Ci sto di lato, ci sto di fronte. È un posto magico, ma la gente non lo sa. Un posto che basta entrarci, per sparire.
Il muro e la parete mandano lo stesso odore: bianco opaco sbiadito. C’è come un retrogusto di polvere, ma è strano, lei passa la scopa elettrica ogni giorno. La passa sempre tre volte: avanti, indietro, ancora avanti, sembra non finire mai.
L’armadio era della nonna Alice, di lei non ricordo quasi nulla, tranne un sorriso e uno chignon, entrambi composti, pacati. Non so nulla di lei, ma conosco a fondo il suo armadio dai piedi squadrati, le tre ante di noce intagliate a motivi floreali, lo specchio con le macchie di ruggine su quella centrale. Conosco l’interno, i ripiani rivestiti di carta color panna con i gigli fiorentini, l’asta lunga con le scanalature per gli appendini. Soprattutto, conosco il suo fianco sinistro, quello che dà verso il muro, i trentadue forellini di tarlo che stanno nel mio campo visivo. In fondo non so, in alto nemmeno. Sono una bambina abbastanza alta, ma è chiaro che fin lassù non ci arrivo, e neanche troppo in basso: dovrei chinarmi, ma non ci sto.
La luce che arriva dalla finestra in fondo alla camera è più che sufficiente: posso vedere il comodino sulla parete di fronte a me, l’abat jour di legno con il paralume di tela grezza ocra appoggiata sul centrino bianco. Nel cassetto, il mio diario segreto. Vorrei tanto che qualcuno lo leggesse, ma non accade mai. Non che io sappia, e comunque qui non cambia mai niente.
Vedo lo scendiletto sbiadito con le frange, proprio di fronte al termosifone. Le tende d’un bianco sottile che strozzano la luce.
Quando lei è più tranquilla abbandono l’intercapedine e mi siedo lì, la schiena appoggiata al bordo del letto, le punte dei piedi infilate sotto il termo. Mi siedo lì e leggo. Oppure scrivo, ascolto la musica, piango, sogno.
Quando lei è tranquilla, la magia dell’intercapedine svanisce, il muro torna muro, la parete parete e l’armadio armadio, come nelle case degli altri. Quando lei è tranquilla io ritorno bambina, e posso restarmene allo scoperto, respirare forte, persino fare rumore. Allora mi viene voglia di spalancare la finestra e urlare che la mia vita è come quella di tutti gli altri. Gonfio il petto, faccio per alzare la maniglia, lo sguardo punta lontano, fino alle facciate dei palazzi in fondo alla strada. Gonfio il petto e mi sento quasi felice.
Poi però la sento, è lei che urla, ma non di gioia, no. Sta venendo qui, lo so. Allora richiudo in fretta la finestra, liscio bene le tende. Mi infilo nell’intercapedine, trattengo il respiro, l’incantesimo ricomincia.
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