Racconto di Adele Múrino

(Prima pubblicazione)

 

Ospedale delle anime”. Era un nome bizzarro per una struttura destinata a prendersi cura della salute del corpo. Carlo ne aveva sentito parlare ed essendo afflitto da un lieve problema di salute, aveva telefonato per prenotare una visita. L’uomo al telefono gli disse che lì “facevano miracoli”. Prese il biglietto del treno e partì. Arrivò in quella città sconosciuta nel pomeriggio e camminò a piedi fino all’ospedale che si trovava in periferia, su una collinetta. Il cancello d’ingresso era imponente e dotato di telecamere di sorveglianza. Una volta dentro, il cancello si richiuse dietro di lui con un rumore secco. Percorse un vialetto alberato ed arrivò davanti ad un portone. Una voce metallica lo invitò ad entrare e il portone si richiuse automaticamente. Si ritrovò in una sala circolare con un bancone al centro e alcune persone, vestite di bianco, sedute davanti agli schermi di computers, immerse in un silenzio tombale. Un uomo in camice bianco entrò nella sala e si avvicinò a lui. Carlo gli tese la mano e abbozzò un sorriso ma l’altro rimase impassibile e gli fece cenno di seguirlo. Salirono con l’ascensore, percorsero un corridoio illuminato dai neon e si fermarono davanti ad una porta chiusa. L’uomo, che fino ad allora era rimasto in silenzio, gli spiegò che quella era la stanza a lui riservata e che un medico sarebbe arrivato a visitarlo. Rimasto solo, Carlo gettò uno sguardo alle pareti spoglie, fece scorrere la tenda per guardare fuori e restò sorpreso nel vedere che c’erano sbarre alle finestre. Fuori, nel parco non si vedeva anima viva. Sistemò nell’armadio le poche cose che aveva portato con sé e si sedette sul letto. Il medico arrivò poco dopo, gli fece qualche domanda, annotò qualcosa su un taccuino e gli misurò la temperatura. Quando stava per andarsene, Carlo gli chiese il perché delle sbarre alla finestra. “Motivi di sicurezza” rispose quello, quasi infastidito dalla domanda. Rimasto solo, Carlo si preparò per la cena che avrebbe consumato in camera. Dopo circa mezz’ora, entrò nella stanza un addetto con il carrello portavivande. Aveva appetito quella sera, mangiò tutte le pietanze servite e poi lasciò il carrello fuori della porta. Avrebbe fatto volentieri una passeggiata nel parco prima di andare a letto ma il medico glielo aveva proibito. Prese un libro e cominciò a leggere. Non si sentiva volare una mosca. Di solito leggere gli conciliava il sonno ma quella sera la sua testa era altrove: qualcosa non gli tornava in quel posto. Era calato il buio della notte e solo la fioca luce sul comodino gli faceva compagnia. Ora aveva la testa pesante e la vista annebbiata. Il libro gli scivolò di mano e si assopì. Nel torpore avvertì un rumore leggero, quasi impercettibile, provenire dalla porta. Apri gli occhi a fatica e avvertì un fortissimo mal di testa. Sforzandosi, si alzò dal letto e si accostò alla porta. Impugnò la maniglia e provò ad aprire. Il rumore cessò ma si accorse che la porta era chiusa a chiave e lui non ricordava di averla chiusa. Confuso, guardò per terra e nelle tasche: la chiave non c’era. Provò ad aprire forzando sulla maniglia e poi si arrese. La situazione era così surreale che non riusciva a crederci: si ritrovava prigioniero in quella camera. Brividi di paura gli fecero vibrare ogni singolo muscolo, gocce di sudore gli imperlavano la fronte, tremolii irrefrenabili alle mani. Dovette appoggiarsi al muro per evitare di cadere. Si avviò verso la finestra barcollando su gambe pietrificate. Nella sua testa balenò un dubbio atroce: lo avevano forse drogato? Scostò la tenda ed aprì la finestra per respirare aria fresca, poggiò la fronte alle fredde sbarre d’acciaio e con le dita artigliò il metallo. Trascorse così tutto il resto della notte, respirando a pieni polmoni l’aria umida e cercando di rimanere sveglio. All’alba giaceva seduto per terra con un rivolo di bava che fuoriusciva dalla bocca semiaperta. La porta della stanza si aprì e vide la sagoma di un uomo che avanzava verso di lui. Due braccia forti lo sollevarono da terra mentre lui cercava di divincolarsi. Si fermò solo quando sentì la voce del medico che gli ordinava di calmarsi, dicendogli che forse aveva avuto un incubo. Con un po’ di riposo si sarebbe sentito meglio. Carlo annuì e si lasciò docilmente accompagnare a letto mentre il medico continuava a rassicurarlo sul suo stato di salute. A quel punto Carlo gli disse che qualcuno aveva chiuso a chiave la porta della stanza. Il medico replicò che era impossibile e che forse lo aveva sognato. Gli disse poi che voleva somministrargli un calmante per placare la sua agitazione. Carlo allora finse di sentirsi meglio e acconsentì a rimanere a letto. Rimasto da solo corse verso la porta e si accorse che non era chiusa a chiave. La socchiuse appena, sbirciò nel corridoio e vide che era deserto. Realizzò che doveva approfittare di quel momento e scappare da quel posto. C’erano troppe cose strane: “Ospedale delle anime”, le sbarre alle finestre, la porta chiusa a chiave, lo strano malessere dopo la cena. Ormai determinato a non rimanere lì un minuto di più, calzò le scarpe da ginnastica, indossò la felpa, lasciò il resto lì e uscì dalla stanza. Percorse il corridoio e le scale senza incontrare anima viva. Si diresse, con il cuore in gola, verso un’uscita laterale che aveva intravisto quando era arrivato. All’improvviso udì delle voci e, preso dal panico, aprì la prima porta che trovò, entrò, richiuse e rimase immobile finché le voci non si allontanarono. Nella penombra della stanza, vide un uomo seduto su una sedia a rotelle che lo fissava. Dopo qualche secondo, l’uomo gli sussurrò: “Scappi via in fretta! Ero salito con l’ascensore ieri notte per cercarla e avvisarla…non ci sono riuscito…anch’io, se potessi…”. Non finì la frase che Carlo era già fuori e correva disperato verso quell’uscita. La fortuna lo aiutò: in quel momento il cancello era aperto e vi transitava un furgoncino. Schizzò fuori in strada e riprese a correre a perdifiato. Era lontano dall’Ospedale delle anime quando, imboccando una curva della strada, inciampò e cadde malamente. Avvertì un dolore lancinante che gli trapanò il cervello e gli fece quasi perdere conoscenza: si era rotto un braccio. Nel mentre, vide arrivare un’auto e fu preso dal panico. Era sfinito per la corsa e per il dolore insopportabile al braccio. L’auto si arrestò a poca distanza, un uomo scese e si precipitò a prestargli aiuto: era salvo. L’uomo, con cautela, lo aiutò a rialzarsi e a salire a bordo. Carlo gli raccontò tutto quello che gli era successo e lo pregò di accompagnarlo subito alla Polizia. L’uomo lo ascoltò in silenzio, riaccese il motore e ripartì. Carlo si abbandonò spossato sul sedile, chiuse gli occhi e si assopì. Quando li riaprì, ebbe un sussulto: l’auto era ferma davanti all’imponente cancello dell’Ospedale delle anime. Il soccorritore lo guardava con occhi umidi. Quelli di Carlo erano sbarrati dal terrore. “Mia moglie è ricoverata lì in attesa di un cuore nuovo. Tu sei la nostra ultima speranza. Non posso lasciarti andare. Lì dentro fanno miracoli”.

Il cancello si richiuse con un rumore secco e Carlo lanciò un urlo bestiale.