Racconto di Giuseppe (Joe) Bonato

(Settima pubblicazione)

 

“E siamo in tanti coperti da neve gelata
non c’è più razza o divisa, ma solo l’inverno
e quest’estate bastarda dal vento spazzata…”
(F.Guccini: < Il caduto > dall’album D’AMORE, DI MORTE E DI ALTRE SCIOCCHEZZE del 1996)

Ho ancora nel cuore il ricordo di nonno Valentino e di quando con lui incominciai a ricercare i funghi nei boschi sulla piana di Marcesina.
Ho ancora impresso nella mente, come una fotografia, quell’arida e desolata montagna che si erge cupa in lontananza verso nord.
Valentino, classe 1895, più familiarmente chiamato Nello, mi parlava allora di un’antica battaglia che lassù si consumò e dei troppi caduti italiani ed austroungarici che sacrificarono la vita nel tentativo di conquistare o difendere quell’estremo lembo dell’Altopiano di Asiago sovrastante la Valsugana.
Raccontava tutto ciò, camminando zoppo nel bosco, con voce che tradiva l’emozione ed io scorgevo, dal lieve luccichio dei suoi occhi, trasparire un sentimento di velata mestizia.
La Grande Guerra mondiale ‘15/‘18, così detta fino a quando non si consumò la seconda del ‘40/’45 ancora più grande, era un ricordo incancellabile per chi, come lui, l’aveva vissuta.
Ecco perché le montagne impervie a nord dell’altopiano vicentino rappresentavano, anche geologicamente, nella memoria di Nello, quei luoghi del lontano Altopiano del Carso, tra Gorizia e Trieste, dove aveva combattuto aspre battaglie di sfondamento che non sfondarono mai e dove fu ferito al ginocchio da una scheggia di bomba. La reminiscenza della sofferenza patita, dei commilitoni caduti, della paura in trincea prima dell’assalto, riemergeva sempre più vivida da quel lontano passato, trasformando la corazza d’uomo forte in tenerezza d’animo.
“La guerra è il dramma umano più grande!” ripeteva e poi mi esortava : “Caro Giuseppe, bisogna perseguire la pace!”.
Per questo motivo, ogni volta, ritornando tra quei boschi all’appassionata ricerca dei gustosi boleti, mi fermavo un attimo ed il pensiero andava a nonno Nello quando lo sguardo incrociava d’istinto il roccioso massiccio dell’Ortigara. Ed era sempre la stessa sensazione che provavo.
Quella montagna, stagliata là sopra, di colore variante da ferrigno a giallo-ocra, m’incuteva, dai suoi duemila metri d’altezza, un senso di angoscia. Ormai da tempo mi ero documentato leggendo nei libri di Pieropan ed altri autori il dramma che aveva travolto, in quelle piovigginose giornate di giugno del ‘17, accomunandone il destino, migliaia di giovani soldati di entrambi gli eserciti.
Erano morti orrendamente sotto i bombardamenti devastanti delle trincee, oppure negli assalti tra i gas asfissianti nel Vallone dell’Agnellizza finiti per infrangersi a ridosso del triplo ordine di reticolati rimasti intatti, sotto il tiro infallibile delle mitragliatrici nemiche.
Il senso di repulsione per quel monte aveva lo stesso peso di quello d’attrazione, quando decisi di affrontare la mia inquietudine nell’ormai lontano 1988. Salii sull’Ortigara il 10 luglio.
Quella seconda domenica del mese era la giornata dedicata al consueto pellegrinaggio nel ricordo della tragica battaglia assurta a simbolo del sacrificio delle nostre truppe alpine. Partii solitario, con la mia vecchia Dyane 6 azzurro-Savoia, di buon mattino, mentre il sole sorgeva ad oriente sopra Lusiana ed il cielo terso preannunciava una giornata splendida. Già sui tornanti del Costo prevedevo che l’appuntamento avrebbe riscosso partecipazione, osservando che ero superato da una lunga teoria d’auto cariche di popolo con il cappello alpino messo sulle ventitré.
A Treschè Conca sostai dal fornaio per comprare il pane fresco in una bottega stracolma di gente; d’altronde dovevo aspettarmelo! Mi ero attrezzato, da previdente, con maglione, giacca a vento e scarponcini ed avevo messo birra in lattina e tè in borraccia dentro allo zaino: mi mancava solo il pane e qualche etto di affettato.
Sbucando in curva, Asiago si manifestò in tutta la sua bellezza distesa e addormentata sulla piana prativa, accerchiata dal verde scuro dei boschi d’abete. Spiccava maestoso sulla città, appena più in alto sul colle Leiten, il Sacrario Militare; quadrilatero ad arco che conserva i resti mortali di oltre 54.000 Caduti italiani ed austro-ungarici, monito a perenne memoria della guerra e delle sue conseguenze.
Un’altra avvisaglia di cosa mi attendeva alla meta prefissata fu la vecchia corriera che raggiunsi nella ripida e boscosa salita che da Gallio entra in Valle di Campo Mulo. Dal mezzo pesante, non solo per la massa meccanica ma anche dal carico di vecchi alpini, mi arrivavano le note confuse di cori di montagna. Arrancando lentissima, col motore sotto sforzo, dava la sensazione di fermarsi da un momento all’altro. La superai di slancio osservandola, dallo specchietto retrovisore, sparire immersa nella densa nuvola di fumo nerastro che sviluppava.
Rimango ancor oggi nel dubbio che sia mai arrivata a destinazione…
Man mano che mi avvicinavo, il percorso peggiorava e la strada da asfaltata divenne sterrata. Notavo gente sbucare dai sentieri a piedi ed in mountain bike, mentre altre persone occupavano gli spiazzi verdi al limite del bosco, stendendo i plaid accanto ai tavoli da pic-nic. Ero ormai circondato da moto ed auto, ciclisti e marciatori; tutti in ogni caso in movimento in un’unica direzione, attratti dal medesimo evento. La strada polverosa ora diventava quasi impraticabile anche per la Dyane 6, nonostante le sue sospensioni alte e molleggiate; fortunatamente i tratti peggiori erano stati asfaltati. In prossimità del Monte Lozze, luogo di assembramento nel vecchio fronte italiano, sembrava di essere ad una sagra paesana. Il piazzale era già sorprendentemente ingombro di pullman, auto ed ogni altro mezzo. Tutto intorno c’erano accampamenti di fortuna con tende di tutte le fogge da dove provenivano richiami, grida, canti e cori alpini emessi da registratori ad alto volume. Numerosi “i veci e i boce” che raccoglievano legna per poi concentrarsi attorno al fumo biancastro dei fuochi a far le braci per griglie artigianali giganti, mentre altri fuochisti erano intenti, con pentole d’acqua enormi, a preparare polente eccezionali, tra fiaschi e damigiane di vino in bella vista. Tutti segni inequivocabili che preannunciavano le grandi libagioni dell’ora di pranzo. Cappelli alpini ovunque, di tutte le età, che tra un brindisi e l’altro divoravano lo spuntino mattutino, consistente nel classico panino di sopressa nostrana o formaggio di malga. Tutta gente arrivata all’alba o che aveva pernottato sul posto.
A fatica trovai un ritaglio di spazio libero. Infilai l’auto tra due abeti e mi avviai deciso in salita verso il monte. Arrivai alla chiesetta dopo un quarto d’ora di processione chiassosa. Tra il rifugio Cecchin e il piccolo Sacello-Ossario, una folla indescrivibile attendeva la Messa al campo. Autorità civili con i gonfaloni e quelle militari con il picchetto d’Onore armato; poi la marea alpina tra una fitta selva di labari, stendardi e gagliardetti ed in mezzo quattro reduci di quella guerra con medaglie e nastrini sulle giacche, in posa per i fotografi. Un gigantesco vessillo italiano, accanto all’alta colonna con statua della Madonna dolente dallo sguardo rivolto all’Ortigara, garriva al vento. Estrassi dallo zaino e gustai un panino ed una birra osservando l’arrivo continuo dei pellegrini poi, mentre stava iniziando, in solenne silenzio, il rito religioso e la calca era opprimente, decisi di proseguire, addentrandomi lungo il sentiero nel regno del pino mugo. Alla mia destra svettava la piramide di Cima della Caldiera e dinnanzi, oltre la vallata carsica, la massa incombente della montagna funesta, sulla cui sommità spoglia si scorgeva la Colonna Mozza di quota 2105, monumento agli alpini, e più in basso a destra il grosso cippo austriaco di forma squadrata.
I rari viandanti che incontravo erano di ritorno dopo la visita al monte dell’olocausto. Giunto nella parte più bassa del Vallone dell’Agnellizza, alla Baita dell’Ortigara, deviai a destra verso il Passo dell’Agnella arrivando a quota 2101 sul monumento nemico, tappa conquistata dall’8° e 9° Gruppo alpini nel ‘17. La ressa e la confusione erano già da tempo lontane e dimenticate. In queste condizioni i sensi ne beneficiano tanto da cogliere il fascino celato di un habitat carsico, arido ed inospitale. L’occhio riesce a percepire la bellezza dello splendido rododendro irsuto e scruta attento il volo concentrico del rapace, il naso capta il profumo del muschio e del pino montano, l’orecchio ascolta l’eco nel silenzio irreale, mentre leggera la brezza accarezza il viso alleviando la fatica e rendendoti consapevole di essere vivo e vitale. Mi allontanai dal sentiero ed entrai nella trincea contesa in direzione della meta, osservando le fortificazioni in cemento armato, le gallerie di riparo, le feritoie di mitragliatrice, le postazioni dei cannoncini. Quella sull’Ortigara era una posizione dominante formidabile; considerai come la difesa austriaca ricordasse i bastioni di un castello medioevale inespugnabile e provai per un attimo ad immaginare i nostri poveri soldati attraversare di corsa quella larga vallata, allo scoperto, tra nebbia e pioggia battente, sotto il fuoco nemico.
Ecco laggiù in fondo, in quella zolla rettangolare, riuscivo a distinguere chiaramente, dove la terra era più grassa e l’erba più verde, il posto dove furono sepolti tremila nostri Caduti.
Continuai il percorso, sotto un sole bruciante, tra numerose doline e l’osservazione attenta del suolo dava i suoi frutti.
Dalle bianche pietraie e dal poco terreno smosso con il disgelo, affioravano i reperti. Ormai riuscivo a distinguere i vari metalli dal colore: le schegge ferrose di granata di color marrone-arancio, le pallette di piombo degli Shrapnel grigio-azzurro ed i bossoli di ottone verde-rame.
Fu proprio raccogliendo una di queste schegge che rimasi inorridito ed ebbi un moto di repulsione nello scoprire, lì accanto sopra ad un sasso piatto, l’osso fossilizzato di un setto nasale umano con l’arcata dentale superiore, completa in tutta la sua dentatura, appartenente ad un uomo giovane e che sembrava attendere qualcuno col suo fatale ghigno beffardo. “Drammatico… assurdo!” commentai, visibilmente scosso. Dopo un attimo di smarrimento ebbi così a constatare come tutti quei resti umani, che si ritrovano anche oggi dopo tanti anni, sono la testimonianza reale di quali terrificanti bombardamenti abbiano dilaniato gli uomini, disseminandoli a pezzi nel terreno, per censirli poi, negli asettici bollettini di guerra, tra i soldati dispersi.
Raggiunsi la sommità dell’Ortigara a quota 2105, punto d’arrivo, 71 anni prima, degli alpini del generale Di Giorgio.
Alcuni visitatori collocavano grossi frammenti di proiettili, reticolati, caricatori, e metallo di ogni tipo alla base della Colonna Mozza, mentre altri sceglievano i pezzi migliori da portare a casa come cimeli. Dopo una breve sosta ripresi la marcia e scesi verso il Coston dei Ponari dalla parte opposta a quella dov’ero arrivato. Alcuni rintocchi, poco lontano in quella direzione, avevano attirato la mia attenzione. Immersi nella quiete, quei tocchi ripetuti, limpidi e cristallini, effondevano come un sapore antico. Riflettendo su questa sensazione, considerai come il timbro di campana sussista, unico segno immutato nel tempo, a scandire ogni tappa della nostra vita. Raggiunsi il luogo appena abbandonato da coloro che l’avevano suonata. La piccola campana, dedicata ai Caduti, era issata sul treppiede di ferro cementato nella roccia. Le note limpide e cristalline ruppero nuovamente il silenzio emozionante e si espansero, echeggiando lungo la brulla valle sottostante, verso il Monte Campigoletti. Ripresi il sentiero e arrivai a Cima Lozze all’una. La Messa al campo era oramai terminata da tempo e tutta la gente, che tre ore prima si era accalcata, aveva sfollato negli accampamenti, più in basso, da dove proveniva il profumo del rancio: braciole ai ferri e polenta brustolà.
I commensali banchettavano allegramente, ma io, non avendo appetito, entrai nel piccolo sacello-ossario appena sotto la chiesetta.
Vidi subito le larghe mensole di cemento sulle quali deporre i resti umani ritrovati e più avanti un muretto di pietra che ostruiva parzialmente in altezza la grotta dove i poveri rinvenimenti venivano poi, da qualche mano pietosa, riposti.
I ripiani erano zeppi di ossa imbalsamate bianchicce. Spiccava nel mezzo un vecchio scarpone chiodato, sbrindellato, riarso dal sole in cui si intravedevano le falangi del piede. Aprii una tasca dello zaino ed estrassi, dall’involucro di cellophane, la mia scoperta che collocai al centro del piano d’appoggio. Una breve preghiera e poi uscii nel sole accecante.
Fu un attimo: mi girai d’istinto e guardai attraverso la porta, cercando con gli occhi strizzati il reperto che avevo affidato al sacello.
Le spoglie spiccavano ora candide e lattescenti nel contrasto con la penombra dell’ossario, quando ebbi come la strana sensazione che quel tenebroso ghigno sarcastico del soldato, lì per lì, si fosse trasfigurato in un raggiante sorriso pacifico. Scesi sul piazzale, verso la mia auto, tra una baraonda di alpini che in grande spensieratezza trascorreva una giornata diversa dalla solita routine e ripresi la strada di casa malinconico.
A sera tardi non riuscivo ancora a dormire e non capivo la mia pena. Pensavo e ripensavo alle parole di nonno Valentino, a quella montagna che ormai non mi incuteva più timore, all’ultimo sorriso del soldato…
Fu allora che capii il motivo del mio malessere: per guarirlo dovevo esternare quella giornata vissuta fuori della quotidianità.
Presi carta e penna e spontaneamente, come guidato, scrissi di getto queste quattro righe liberatorie per l’Anima:

Ortigara 1917-1988

Una pioggia di fuoco, poi l’ultimo assalto nella nebbia mortale…
Lassù sulle vette ammantate, tra i cippi a ricordo di tempi lontani,
nemici di ieri riposano assieme nella quiete irreale
tra muschi, licheni e desolate pietraie.

La neve si scioglie, rimuove la terra sconvolta dal ferro…
Ogni anno ritorna tra le bianche doline bruciate dal sole la mano pietosa,
– La campana rintocca nel vento, solenne saluto ai Caduti –
le ossa di pietra raccoglie e depone più a valle,
rinnovando preghiera di pace ai Fratelli di Sangue.