Racconto di Xavier Vigorelli
(Prima pubblicazione)
Si svegliò in una cella di due metri per due, contornato da tutti i lati da spesse mura d’argilla.
Senza porte né finestre; dieci metri di liscia verticalità. Solo in alto si vedeva l’azzurro del cielo attraverso un’apertura di forma quadrata.
La temperatura era mite. Il silenzio assoluto.
Prese le misure: allargando le braccia toccava quasi le pareti da entrambe le parti. Sulla diagonale guadagnava due spanne in più.
Premette sull’argilla con i due palmi, provò prima all’altezza delle spalle, poi in basso, lungo il bordo col pavimento in terra battuta. Forse non erano mura. Forse si trovava sottoterra. Era come se una montagna d’argilla avesse deciso di farsi guscio e prigione.
Sentì fin dal primo momento, per un motivo a lui indecifrabile, che non avrebbe avuto problemi di cibo né di freddo.
Si rimise a cercare una via di fuga con metodo. Premette sui muri a giri concentrici, salendo di una spanna ogni volta; finché arrivò a premere alla massima altezza con le braccia tese sopra la testa, alla ricerca del punto debole, del passaggio segreto delle fiabe.
Fiabe appunto. Più premeva e più gli pareva che la gabbia si restringesse. Stanco, si sdraiò. Provò a grattare la terra compatta che gli entrava sotto le unghie fino a fargli male. Presto trovò ghiaia e poi roccia. Fu sera. Si sdraiò a pancia in su e si accorse della bellezza del cielo che imbruniva.
Questo scurirsi graduale del cielo era l’unico cambiamento avvenuto durante tutto un giorno di immobilità e silenzio. Il solo riferimento del tempo che passava. Lo benedisse.
Cercò di guardare meglio quel colore per capire dove fosse. L’aria era tersa, né secca né umida. La sera la temperatura non diminuì. Non un uccello, né un aereo erano passati in quel quadratino di cielo. Solo un immoto e omogeneo azzurro.
Si fece buio; il rosa e il viola fecero spazio al nero.
Si toccò il viso, gli zigomi, il naso, le arcate sopracciliari. Si passò la mano tra i capelli. Mosse la pelle della fronte e sentì spaccarsi la pellicola di argilla che aveva dappertutto sulle mani, sul collo, sui piedi nudi. E sui vestiti. Nient’altro che argilla. Unico suono lieve nel buio era il suo respiro, appena percettibile come il battito del cuore. Era ancora un uomo, si disse dopo aver controllato coi polpastrelli che i suoi lineamenti erano ancora quelli conosciuti.
Sopraffatto dalla stanchezza dormì.
Lo svegliò la luce dell’alba e la dura terra sotto la schiena. Con sgomento si accorse che era ancora lì, nel silenzio.
Il secondo giorno lo passò a concentrarsi sul cielo. Amò l’alba. Odiò l’azzurro per tutto il resto del giorno. Era così fisso! Nemmeno un velo più lattiginoso rompeva il colore tinta unita. Gli venne a noia e smise di guardarlo, anche perché iniziava ad accusare segni di torcicollo. Nessun suono, nessun odore. Nulla. Provò anche a leccare le pareti per sentirne il sapore. Non sapevano di niente, né di ferro, né di humus. Pura argilla che gli rimase poi tra i denti.
Tirò due o tre spallate giusto per non lasciare niente di intentato. Sapeva già che non avrebbe ottenuto nulla se non un male alla spalla che almeno gli tenne compagnia.
Il terzo giorno cacciò un urlo come quelli che si fanno in montagna per comunicare con un compagno rimasto indietro. Senza speranza né disperazione. Sapeva non esserci nessuno; lo sapeva da sempre.
Iniziava a sentire familiari quelle alte pareti, benché fossero troppo piatte per essere abbracciate. Nella loro gotica altezza lo facevano sentire piccolo.
Dormicchiò tutto il giorno. Si massaggiò i piedi. Si premette con cura il tallone, l’arco plantare, i polpastrelli. Aveva tutto il tempo che voleva. Si massaggiò le gambe, si pizzicò le braccia, si pettinò con le dita. Fece pure un breve tentativo di ballare nel silenzio di quel bugigattolo. Fece due piegamenti; poi altri quattro. E poi sei, otto, dieci. Gli piaceva seguire regolarità numeriche. Oltre alle pareti, al pavimento e al quadrato azzurro aveva ben poco a fargli compagnia. I numeri erano molto, in quel poco: l’uno era lui, due erano le mani, tre era lui coi suoi genitori, quattro le pareti, cinque i componenti della sua famiglia. Sei non era niente e quindi era qualcosa. Sette numero biblico, otto il doppio di quattro, nove era il sei al contrario. Dieci era il numero delle dita per suonare il silenzio su un pianoforte immaginario.
Il pensiero del futuro lì dentro a volte lo atterriva. Era in questi momenti che sentiva un vuoto in petto. Si premeva con la mano sullo sterno per calmare quella sensazione asmatica. Grattava i muri, si rotolava in terra.
Iniziò a desiderare.
Desiderò più di ogni altra cosa una compagnia. Tutto pur di sentire una voce umana, avere accanto una persona che sentisse la sua.
La terza notte dormì di un sonno leggero e interrotto. Ogni volta che si girava veniva svegliato dal silenzio che seguiva il fruscio dei vestiti. Si tirava su e sedeva a gambe incrociate, con la schiena contro la parete, ad ascoltare il suo respiro, finché, dopo un tempo che non sapeva dire, si sdraiava di nuovo alla ricerca di sonno.
La mattina passava nell’apatia. La faccia era immobile in un’espressione inespressiva. Il bordo delle pareti contro al cielo, su in alto, lo faceva fantasticare sull’oltre, ma non dava indizi. Era dritto e liscio, come la linea di contatto col pavimento. In basso, il colore della terra era solo un po’ più bruno delle pareti, la sua argilla leggermente più saporita. Era tutto qui il suo diversivo. Quel silenzio formicolava le orecchie. Iniziò a sognare verdi prati e alberi. Si struggeva perché cadesse dall’alto almeno un filo d’erba da osservare, da passare tra la lingua e il palato per succhiare il poco di linfa.
Non sentiva la fame, né la sete. Ma sentiva fame della fame, sete di avere sete.
Stava impazzendo? Sapeva ancora riconoscere la normalità? Cosa voleva dire lì dentro sentire il mondo esterno, se non la pazzia più grande? Sentire cosa? Sentire di non sentire? Diventava di giorno in giorno più raro.
La mattina del quinto giorno si svegliò con accanto un neonato. Come lo vide, il bambino iniziò a piangere.
Non era la compagnia che aveva desiderato. Il bebè era nudo, sdraiato sulla schiena, con le braccine e i pugnetti verso l’alto, le gambe un po’ piegate, e il viso contratto in un urlo.
Lui avrebbe desiderato una spalla su cui piangere, un seno caldo che riempisse le sue mani, gambe dentro cui morire di piacere.
Invece si ritrovava un neonato che non voleva smettere di piangere. Gli parlò. Gli mise una mano sulla pancia, lo prese in braccio. Continuava a piangere.
Lo cullò, lo abbracciò, ma niente, il pianto non cessava. Quel suono acuto, insistente, calava a più riprese e a più riprese aumentava di volume, stridulo. Era ormai verso mezzogiorno. Il cielo era sempre immobile, la terra sempre piatta, le pareti sempre alte. Solo non c’era più silenzio. Ma lo rimpiangeva. Non sapeva più cosa fare. Iniziava a spazientirsi e aveva paura. Non c’era niente lì se non quel bambino e lui. Il lamento era forte e in quei due metri per due non c’era niente che potesse assorbirlo. Le lisce pareti non volevano saperne di prenderne un po’ con sé. Nemmeno la vista aveva pace. Se si voltava dall’altro lato vedeva ancora quel viso contratto e tutto rugoso. La fronte aggrottata, il collo teso, il diaframma sempre a cacciar fuori un urlo più forte dell’altro. Non lo poteva vedere.
Il bambino non si stancava mai. Mezzogiorno doveva essere passato da un pezzo. Era lui a essere stanco, esausto.
Si tappava le orecchie con i palmi delle mani ma sentiva ancora. Provò a urlare a sua volta, per coprire il suono. Ma era troppo acuto; passava attraverso le mani e trapanava i timpani. Si riempì le orecchie di terra, la compattò. Niente.
Quante ore erano passate? La luce cominciava a calare. Gli venne paura di non riuscire a dormire. Doveva raccogliere tutte le forze per sopportare quel bambino che non la voleva smettere. Gli aveva anche urlato; l’aveva minacciato. Gli aveva tappato la bocca. Ma il bambino si divincolava ancora più atterrito.
Finalmente col buio arrivò il silenzio, irreale. Si coricarono distesi, uno a fianco all’altro e dormirono fino all’alba, quando il bambino riiniziò a piangere come il giorno prima. Lui iniziò a contare le ore che mancavano al tramonto, se così si può dire di quel tempo indifferenziato. Cercava una spiegazione. Quel pianto talora gli evocava la strage degli innocenti, talvolta gli sembrava un capriccio. Nel primo caso lo prendeva e provava a cullarlo un po’ con quanta dolcezza era capace. Nell’altro sbottava di insofferenza. Non aveva niente con cui distrarsi. Faceva flessioni. Finì anche per tirare pugni contro al muro. Gli sanguinavano le nocche. Se le leccava. Sapore di sale e di ferro. Ma il bambino non smetteva. Aveva dentro un’energia inesauribile. Poteva riempire quell’infinito silenzio e altri mille uguali. Andava avanti imperturbabile a qualsiasi nenia o tentativo di calmarlo. Pareva rispondere solo a una legge: più lui desiderava il silenzio e più il pianto aumentava; quando sembrava averci fatto il callo, il pianto si acquietava un poco.
I nervi di lui erano allo stremo. O cielo, perché? O pareti d’argilla, mia unica compagnia, perché? Che destino è quello che dopo il silenzio di ghiaccio offre solo pianto e urla? Si mise a saltare per tirare pugni ai muri più in alto che poté. Rosicchiò le pareti coi denti.
Il bambino piangeva, il bambino urlava. Per stordirsi tirò una testata al muro che ricambiò con la consueta solida immobilità. Seguirono il mal di testa e un caldo bernoccolo, che si massaggiò. Provò a pregare ma le parole si inceppavano, per i gemiti del bambino che ci si intrufolavano dentro. Fino alla sera quando, puntuale insieme col buio, tornava il silenzio.
Un pomeriggio il bambino senza alcun preavviso smise di piangere. Tornò la quiete per lunghe ore. Fu poi la notte peggiore. Lui non chiuse occhio. La schiena contro al muro, gli occhi fissi nel buio, le orecchie tese a sentire se il bambino respirasse.
La mattina il pianto riprese. Cresceva insieme alla luce del giorno. Lui era più stanco che mai ed ebbe paura di non riuscire a resistere. Tentazioni omicide si aggiravano nella sua mente, insieme alla censura morale che invano tentava di cacciarle via.
Ancora? Possibile che ancora piangi? Non esaurisci mai le forze? Perché?
Le carezze non lo placavano. La voce nemmeno.
Era ormai una settimana che andava avanti dall’aurora al crepuscolo. La notte il sonno era guastato dalla paura che il giorno appresso si ripetesse uguale.
La mattina dell’ottavo giorno il pianto gli sembrò meno insopportabile. Forse ci aveva fatto l’abitudine. Quegli occhi chiusi in una fessura corrucciata da cui ogni tanto balenava una luce sgomenta non lo impressionavano più tanto; erano diventati normali. O almeno si raccontò così.
Poi a un tratto, come mosso da riflesso incondizionato, prese il neonato urlante sotto le braccine e lo strattonò vigorosamente per farlo smettere. Prima di rendersi conto di quello che stava facendo vide la sua testona oscillare avanti e indietro sospesa sull’esile collo.
Si fermò.
Il bambino aveva smesso di piangere. I suoi occhi erano aperti. Le guance e la fronte più distese. Il respiro si era fatto più piccolo e corto. Gli osservò per la prima volta le ciglia delicate di un castano rosato, le labbra ben formate, i primi due dentini da latte che spuntavano. I piedi paffuti con le unghie come chicchi di riso. Il petto esprimeva una delicata forza.
Le gambette non scalciavano più. Negli occhi non c’era più luce sgomenta. Non c’era più nessuna luce, vedeva occhi normali, come gli occhi di neonato non sono mai stati. Guardavano le pareti di argilla senza guardarle veramente. Si era reso conto che il bambino era diventato color dell’argilla. Si mise a sfregarlo delicatamente con le dita: la fronte, le guancette, il collo. Il bambino stava ora muto e catatonico tutto il tempo. La notte lui non dormì e la notte appresso nemmeno, e quella dopo e quella dopo ancora.
Piangi ti prego. Piangi di nuovo. Perché non piangi più? Che ti ho fatto perché tu stia così muto e silenzioso? A che mi giova avere la compagnia di un altro essere umano benedetto, se è muto come queste pareti, come questo quadrato di terra e di cielo?
Il sonno iniziò a impossessarsi delle giornate. Lui non guardava nemmeno più l’alba perché era l’unico momento che riusciva a dormire, cullato da quel digradare di luce dietro le palpebre.
Il bambino se ne stava fermo immobile, lo sguardo verso il quadrato di cielo. Il silenzio era tornato tombale. Ancora più terribile, dal momento che non era più solo.
Iniziò a parlare al bambino, a raccontargli delle storie. All’inizio non se ne ricordava nessuna. Poi gli venne l’idea di raccontargli delle sue camminate in montagna. Dei suoi incontri con gli animali. Del suo cane che era ancora per lui una presenza viva. Bastava evocarlo e tornava. Si immaginava di ritrovarlo dopo la morte. Di essere convocato in Paradiso. Il cane gli avrebbe saputo spiegare il perché di quella vita chiuso nell’argilla. Col sorriso di un Dio glielo avrebbe spiegato con un solo sguardo pieno di compassione.
Di notte fece un sogno. Sognò il neonato che iniziava a piangere di nuovo. Vivo e sempre urlante come prima.
Si svegliò spossato, col cuore più pesante, o più leggero, non sapeva dire. Guardò il bambino muto, lo sguardo assente. Rimpianse ancora una volta in modo acuto i suoi gemiti.
Si morse il labbro quando ricordò lo strattone che lo aveva ammutolito.
Decise di accompagnare i racconti ai massaggi. Si metteva seduto con la schiena al muro e le gambe in avanti un po’ piegate. Metteva il bambino sulle cosce con la testa sorretta dalle ginocchia. Gli massaggiava il collo, le spalle, la piccola schiena. Tutti i giorni, dopo l’alba e prima del crepuscolo. Erano le uniche attività a toglierlo dal torpore, anche se, il bambino, non reagiva a niente. Non un sorriso, non un pianto. Si lasciava fare come un sacco di patate.
Lui gli guardava gli occhi, cercava di penetrarvi nel profondo per scorgere qualche segno, qualche reazione alle sue parole, al tono della sua voce. Ma anche quando gli sguardi si incrociavano, il nulla in quegli occhi era pari al silenzio in mezzo a quel prisma d’aria nell’argilla.
Quanti giorni erano passati? E quante notti?
Nelle iridi del bambino lui poteva scorgersi come in uno specchio. Poté osservare nell’immagine rimpicciolita del suo volto che i capelli e la barba non crescevano.
Si ricordò del vento e gli mancò. Ebbe desiderio di pioggia. Lì non passavano le nuvole, né le stagioni. Solo torpore con la luce e torpore col buio. I sogni erano rari.
Dopo molto tempo fece un secondo sogno: due bambini che piangevano. Non più solo uno. Si chiese perché. Era in arrivo un altro bambino? Che relazione c’era col sogno precedente? Scrutò ancora meglio l’esserino di fianco a lui. Si girava ora su un fianco, ora sull’altro, gli occhi sgranati, lo sguardo in avanti. Nonostante lo massaggiasse e lo pulisse tutti i giorni, l’argilla riempiva le pieghe della pelle dietro i gomiti e le ginocchia, si depositava sulle ciglia e sotto il bordo delle unghie. Immaginò che venissero ricoperti entrambi lentamente dall’argilla. Di diventare statue; cosa gli mancava per esserlo? Così poca vita circolava sul fondo di quella colonna d’aria! Sarebbe svanito anche quel poco, nel silenzio che avrebbe invaso i pensieri, fino alla pace assoluta.
No, non poteva essere. Se lui aveva resistito tutto questo tempo è perché ancora sperava di riuscire a uscire. Si ricordò di quel canto che cantava da bambino in chiesa:
Misericordia, Abba.
Misericordia, Abba.
Misericordia, Abba, misericordia.
Guardò meglio il bambino. Riconobbe la rosa familiare dei capelli, il suo taglio degli occhi, la bocca, la forma del mento. Si vide. Fu uno spillo nel cuore.
Si passò una mano sugli occhi e la ritrovò bagnata. La prima acqua da mesi, forse anni. Acqua salata di lacrima. Appoggiò la mano alla parete e si sciolsero dieci cubiti di argilla.
Il bambino riiniziò piano a piangere. Ma questa volta rispondeva alle cure. Si acquietava un poco. Allora lui lo prendeva in braccio, lo cullava mentre camminava in cerchio lungo i bordi. Lo accarezzava lentamente. Poi gli faceva il solletico sotto ai piedi. Gli cantava una canzone.
Il piccolo petto contro al suo era caldo. Lo teneva a sé. Poi distendeva le braccia per guardarlo negli occhi. Col pianto arrivò anche un accenno di sorriso. Lui stesso per la prima volta sorrise. Altre lacrime colarono, questa volta di gioia.
Volle uscire più che mai da quella prigione. Non c’era da spingere. Appoggiò di nuovo la mano bagnata di lacrime e si sciolse altra argilla. Lo spessore dei muri sembrava non finire mai. Ma c’era lo spazio per una piccola danza col bambino, che ormai faceva anche qualche versetto. Dopo un tempo indefinito passato in quattro metri quadri, lo spazio più ampio sembrava una reggia e le lacrime erano musica, feste, compagnia, paesaggi.
Una nuvoletta bianca per la prima volta passò sopra la loro testa. Era a forma di occhio. Passò lenta, da parte a parte. Quella notte sognò nuvole di tutte le forme, dimensioni e colori. E pioggia e temporali. Sognò che la prigione si riempiva di pozze e loro ci sguazzavano dentro.
La mattina si svegliò. Si passò le mani tra i capelli e si accorse di avere una cacca d’uccello. Altre lacrime gli scesero sulle guance. I segni si moltiplicavano. La fine della prigionia era vicina.
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