Racconto di Kenji Albani

(Nona pubblicazione)

 

3753 ab Urbe condita

 

Il classe Dardo spalancò i portelli ad ali di gabbiano e come serpenti si sfilarono le corde. I legionari le afferrarono per poi scivolare a terra.

Gneo Tito Celestio si ritrovò nel deserto rosso, iniziò a saltellare di roccia in roccia, si riunì con il resto della centuria che stava andando a comporre con le altre il manipolo.

Il centurione comunicò via radio: «Legionari della Marzia, ricordate di tenere in alto l’onore dell’unità ora che dobbiamo combattere».

Tito dava per scontato che la Marzia avrebbe conquistato Marte, Roma sarebbe stata fiera dei suoi marziani. Negli ultimi tempi gli veniva da ridere pensando alla coincidenza che loro fossero soprannominati marziani e fosse stata la loro unità a essere inviata su Marte.

A devastarlo.

A conquistarlo.

Ad assoggettarlo al governo di Roma, capitale del pianeta Terra.

Il manipolo si compattò e iniziò la marcia in direzione della piazzaforte marziana, nulla a che vedere con i castra della loro civiltà, più una fortezza tutta pieghe a V e con i cannoni a impulsi che cercavano vittime come se fossero belve assetate di sangue.

Adesso che erano vicini alla piazzaforte, i marziani si disposero per la battaglia. L’assedio avrebbe avuto inizio entro tre… due… uno…

Mentre i primi raggi solcavano l’atmosfera come se fossero sortilegi, Tito sparava con il fucile spaziale e pensava divertito a un genere letterario che tanto andava in voga nell’Urbe: una letteratura triste che narrava di un Impero romano che, prima di estendersi a tutte le terre conosciute del globo, si era diviso in Occidentale e Orientale e poi le due parti erano cadute a distanza di mille anni a causa delle invasioni straniere. L’Impero romano non può cadere a causa delle invasioni esterne, l’Impero romano non può crollare, l’Impero romano vince e basta, aveva pensato Tito mentre bruciava sul rogo queste oscenità.

I legionari spararono sui soldati indigeni i quali indossavano corazze reattive che li facevano sembrare più grossi di quel che erano: le armature celavano corpi irsuti molto gracili. Quando Tito aveva visto durante l’addestramento un filmato che mostrava com’erano fatti i marziani, ne era rimasto disgustato. Non avevano nulla a che vedere con l’essere umano.

I cannoni della Marzia coprirono l’avanzata dei legionari, Tito fu ai piedi del bastione e iniziò la sua scalata. Dalla cima, i marziani sparavano i loro impulsi. Un commilitone di Tito finì per essere dilaniato, un altro perse un braccio che iniziò a galleggiare nell’atmosfera priva di gravità.

Quel che spaventava di più Tito era l’assenza di rumore. A parte le comunicazioni via radio, non c’era nulla, la morte di decine di bravi legionari avveniva nel silenzio più impenetrabile.

Forse ho fatto bene a sacrificare a Marte quella gallina, si disse ora che si trovava in cima. L’aveva fatto prima di lasciare la base orbitale e salire a bordo del classe Dardo. E ora che si trovava lì, saltò sul bastione, sparò una sventagliata di quarantacinque gradi a destra, una analoga a sinistra, dietro di lui gli altri marziani lo raggiunsero e dilagarono dappertutto.

Mentre i commilitoni conquistavano fette sempre più ampie delle mura e già i primi stavano saltando all’interno della piazzaforte, Tito sedette con la schiena alla parete. Si rilassò un attimo, poi vide il centurione che gli sbraitò contro:

«Celestio, muoviti a combattere, noi marziani non siamo come i marziani».

Tito scattò in piedi. Il centurione aveva ragione, nonostante il paradosso.

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