Racconto di Sam Zanobi

(Seconda pubblicazione – 28 dicembre 2020)

 

 

Intrappolato. Distorto come un’onda sonora. Incastrato in roccia piangente. Con un filo che trapassa e lega carni dall’alto al basso. Dentro un frastuono di orrendo fragore di atomi lontani in un gorgo di memoria. Eppure, a volte sballottato come un sasso che cade in una rupe senza fondo. A volte succhiato da una saliva universale e orrendamente schiacciato nello stretto gorgo primordiale. Voci si concretizzano con dolore in un silenzio rumorosissimo e senza quiete. Parole senza senso trapassano un cranio che non esiste più. Parole forse più concrete e voci che di familiare hanno il tono e il sonoro della vita e del suo transitare veloce verso il nulla. Anima senza pace mostrati al nostro cospetto. Ripetuta nel tempo, nel cosmo. Incisa sul sasso come un tormento inflitto senza un vero motivo. Anima senza pace, parla. La lingua appare tradotta in onda e poi in pallini fluorescenti di parti subatomiche. Un grido mi nasce come il ribollire di magma e probabilmente ciò che leggo sul legno è una mia risposta alle sofferenti richieste. Inarginabile sequela di anni nell’attimo e nello spazio, pioggia di suoni e parole e stilettate di sofferenza.

L’immagine sfocata di persone si dilunga come sviluppata da pellicole senza tempo. Un volto conosciuto emerge come dalla pancia della gigantesca essenza del torbido processo digestivo universale. Un nome che provo a pronunciare come mi appartenesse e stringo e digrigno qualcosa, estrometto un respiro, una bava di puro colore. Il pianto echeggia in ogni angolo mentre tetragoni di angoscia mi schiacciano in nuove dimensioni. Ancora il richiamo cogente riverso su grandi spazi di cobalto mentre un leggero pianto inonda come pioggia l’insieme di sensazioni irrazionali. Non posso trascinare che l’ombra del mio essere senza precisi confini ed offro quello che posso nello sforzo di accontentare il volto che è riapparso in un grande schermo convesso che si allontana come nell’impossibilità di un contatto ovunque desiderato. Sprofondo come annegato dalla marea di nera emozione. Nel breve niente di pace suonano le catene metalliche del ricordo. Ectoplasmi di luce che emergono e spumeggia una voglia lontana, da universi indicibili e fragorosi. Monta una carica di ritorno che si incanala nel corridoio vitale di energie spese senza risparmio. E dire, e dire, e dire. La roccia cede, si squarcia. Il volto riappare scolpito dai lapilli mortali. Bellezza che appartiene a questo universo, a qualcosa che era, che dava, che voleva ma adesso è contorto in ammassi di forme pesanti. E dire, e dire, e dire. Cos’era, cos’è ancora quel volto che appare adesso sereno, adesso piangente. Chi sono, chi sei? Inutile sforzo nella valanga perpetua di suoni che spingono nel baratro del silenzio. Un ultimo grande sforzo ed esce come voce e finalmente dice:

Sei amore. In vita e morte, moglie e figlia, riposo e veglia: amore.

Tutto scompare ed un eterno buio in un attimo sommerge ogni dinamico tentativo di ristabilire una forma, un suono, una logica ad un divenire che non ha direzione ed è dominato da un lento frastuono che stride di ogni sofferenza, ma circondato da un enorme candore.