Racconto di Gianluigi Vanni Bettega

(Prima pubblicazione – 19 dicembre 2018)

 

Dopo la morte di mamma, la famiglia si disgregò. Renzo ed io a Como, nell’Istituto SS Annunciata presso il Crocifisso retto dai Padri Somaschi, Claudio dalla zia Angioletta, Marco da nonna Angelina e Agnese presso il nido d’infanzia a Como.

La riunificazione iniziò nel 62, quando Renzo venne riconsegnato in famiglia e raccomandato a papà dai preti che lo ritenevano destinato ad un futuro criminale. In realtà Renzo crebbe ben coinvolto nella gestione della casa e fu più maturo di quanto lo fossi io sia quando rientrai in famiglia nel 64 che quando mancò papà nel 68. La famiglia ci vide completamente riuniti sotto lo stesso tetto nel 67, quando papà mi incaricò di portare a casa Agnese dall’istituto in via Aspromonte di Lecco.

Quando appunto nel 64 io rientrai eravamo a casa in 3. Papà aveva organizzato la gestione in chiave militaresca, niente soprammobili inutili, lavori casalinghi suddivisi e a rotazione, lavori cui partecipava pure lui.

Uno lavava i piatti, l’altro li asciugava e il terzo riponeva. Chi il giorno prima aveva lavato ora passava a riporre e chi aveva riposto passava all’asciugatura e così via per tutti gli altri lavori.

Questi lavori si facevano spesso fischiettando o anche canticchiando e fu così che una sera papà canticchiava un’aria con parole strane: l’aria era quella che conoscevo come “fischia il vento “ ma le parole erano incomprensibili: “ Papà che cavolo canti? “ sbottai e lui:  Questa l’ho imparata in Russia, mentre stavamo andando al fronte sul Don.  L’ordine dei tedeschi e del comando era che gli abitanti ci avrebbero dovuto tutto gratis. Però noi ci vergognavamo e cercavamo di fare con i civili russi dei baratti, una sigaretta valeva un uovo o un mezzo di latte, un orologio valeva parecchio! Fu così che ci accolsero con un certo calore e anche con simpatia. La canzone è russa e il titolo originale è Katjusa che vuol dire Caterina. Si accompagnavano con le balalaike e per noi avevano storpiato il testo con queste parole: “neina yainska, neina cocorosa, neina gleba, neina moloko:  Italienski………( e qui io non ricordo il testo perché non ho avuto la buona idea di trascriverlo). Il significato era che senza latte né pane né uova né farina gli italiani andavano lo stesso.

Quando mi disse queste parole, avvertii nella voce di papà tutta l’amarezza per l’assurdità di quella guerra che ti costringeva a combattere contro chi ti stava simpatico e a rispettare chi invece ti stava sulle palle.

Katjusa, quella vera, stava dall’altra parte del Don, ogni 5 minuti sparava 16 colpi contemporaneamente!

A me piace pensare che Giacomo Sibilla, detto il partigiano Ivan, reduce dal fronte russo quando incontrò nell’alta valle di Albenga Felice Cascione gli abbia accennato il motivo di Katjusa usando le stesse parole che ricordava papà, appunto Neina Yanska…. Ecc. e che Cascione gli abbia adattato il testo:

Fischia il vento e infuria la bufera

Scarpe rotte eppur bisogna andar

A conquistare la rossa primavera

Dove sorge il sol dell’avvenir

Purtroppo papà, fallito un rocambolesco tentativo di fuga dalla caserma di  Vipiteno l’8 settembre del 43,  finì la guerra dalla parte sbagliata. Ma questa è un’altra storia.