Racconto di Mike Papa
(Sesta pubblicazione)
Doveva per forza essere un sogno. Nei sette anni di matrimonio, ma anche prima, durante il fidanzamento, non era mai andata in tribunale ad assistere allo “show” del grande Steve Roach, giovane avvocato di successo. Uno dei primi neri a farsi strada nelle aule di giustizia. Adesso invece era lì, seduta in prima fila, ma intorno era tutto un fermo-immagine, il tempo era bloccato in un attimo infinito, altra conferma che quello che viveva non era reale. A quanto pareva solo lei aveva possibilità di movimento e poteva spaziare con lo sguardo per la grande aula. Vide, tra il pubblico, sua madre e quello stronzo di suo padre. La mamma aveva un rivolo di lacrime cristallizzato sulle guance, mentre sul volto del padre c’era una strana smorfia, che lei interpretò come soddisfazione. Dei parenti di Steve sembrava esserci soltanto il fratello Arnold, altro porco che ti raccomando. Riconobbe almeno un paio dei colleghi di suo marito seduti ai loro posti, in attesa, e il giudice Hughes, bloccato col martelletto a mezz’aria. Li aveva conosciuti a qualche barbecue a cui non aveva potuto sottrarsi: Steve amava esibirla come un trofeo, così come amava gli hamburger e la birra. Soprattutto la birra. Si accorse, con sorpresa, che l’unico a mancare era proprio il “grande avvocato”. Nell’incoerenza del sogno decise di alzarsi e chiedere a sua madre cosa stesse succedendo, ma quella stava svanendo, si liquefaceva come tutti gli altri, sembravano statue di cera sotto il sole di luglio, carne, ossa e tessuti diventavano un fiume ribollente che presto l’avrebbe raggiunta, travolta, infettata… Rabbrividì di orrore, mentre il martelletto del giudice, non più sorretto dalla mano, cadde sul banco con un colpo cupo.
TUMP!
«Cosa diamine è stato quel rumore?» pensò svegliandosi di soprassalto. Non portò con sé niente del brutto sogno da cui era stata strappata, se non il cuore in tumulto e il fiato corto. Riuscì con mano tremante ad accendere la piccola lampada sul comodino e guardò la sveglia, segnava le 3:20. Il silenzio, adesso, era rotto solo dal russare da ubriaco del marito che per fortuna dormiva ancora beato al suo fianco, mentre lei cercava di calmare la paura. Ci riuscì a fatica, mentre malediceva gli inquilini del piano di sopra che chissà cosa avevano lasciato cadere per terra, a quell’ora della notte. Quando si fu completamente calmata scostò il lenzuolo e si alzò: tanto valeva andare a svuotare la vescica. A tentoni, aiutandosi solo con la memoria, percorse il corridoio, entrò in bagno, accese la luce e si chiuse la porta alle spalle. Riuscì a spillare un paio di gocce, sbadigliando fiduciosa: forse c’era la possibilità di riprendere son…
TUMP!
Ancora quel rumore, direttamente sopra di lei. Un tonfo sordo, qualcos’altro era caduto sul pavimento del piano superiore, e questo la terrorizzò, senza nessuna ragione apparente. Restò seduta sul water, rabbrividendo. Vide la maniglia della porta che si abbassava lentamente e, sentendosi sciocca nonostante l’angoscia, chiese con voce flebile: «Steve, sei tu?»
Era lui. O meglio, qualcosa che gli somigliava molto. La parte sinistra della testa era tutta maciullata, pezzi di ossa, sangue e materia cerebrale erano impastati a formare una raccapricciante maschera che gli copriva metà del volto.
Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Per fortuna riuscì a trattenere l’urlo, uscendo dall’incubo, altrimenti Steve si sarebbe svegliato e chissà come avrebbe reagito. Oh, non diciamo stronzate, lo sapeva bene quale sarebbe stata la sua reazione, no? L’unica incognita era in che parte del corpo l’avrebbe colpita. Prediligeva lo stomaco, il “grande avvocato”, ma non disdegnava le cosce né la schiena. Solo la faccia era risparmiata, strategicamente. Quando il respiro tornò regolare si alzò e alla debole luce che penetrava nella stanza dal lampione in strada si avviò verso il gabinetto. Passando vicino a quello che era da ormai sette anni suo marito lo maledisse per la milionesima volta. Come evocata dalla maledizione, una mano le artigliò il polso: «Dove stai andando, negra?»
Cercò di liberarsi dalla stretta, ma non ci riuscì. Non ci riusciva mai.
«In bagno. Mi fai male, Steve!»
Per tutta risposta lui la strattonò e quando gli fu addosso la prese per il collo con l’altra mano.
«È possibile che per andare a pisciare devi fare tutto questo cazzo di rumore? Eh? Rispondi, negra!»
Ma lei, anche volendo, non avrebbe potuto farlo. Gli era a pochi centimetri dal viso e il tanfo che gli usciva dalla bocca era qualcosa di indicibile, un misto di terra rancida e carne andata a male che le bloccava la respirazione più della mano che stringeva, stringeva… Seppe che quella era l’ultima volta, capì che l’avrebbe uccisa e poi sarebbe tornato con tranquillità a dormire. E a quel punto si arrese, Fallo, Steve, fallo una volta per tutte, sarà pure un modo per uscire da questa dannazione…
Si svegliò tossendo. Il sogno era stato così vivido che le sembrava ancora di sentire il fetore dell’alito di Steve e la sua mano che le serrava il collo. Non capì subito dove si trovasse, ma non le importava. Era tutto finito, e nessun incubo, per quanto realistico, poteva cambiare lo stato delle cose.
Ormai completamente vigile, riandò con la memoria, per la centesima volta, al momento in cui aveva trovato il coraggio e deciso di non fare più da punching ball per suo marito. Oh, come si era sentita bene nell’impugnare il martello, si adattava con perfezione alla sua mano, era così giusto! Lui dormiva e russava come un porco, dopo essersi scolato litri di birra, averla praticamente stuprata e lasciata sul pavimento a piangere in silenzio.
Lo fece senza pensare alle conseguenze. E non fu solo suo marito che colpì, no, a Steve si sovrapposero quello stronzo di suo padre, quel porco di Arnold e gli altri che le avevano mancato di rispetto per tutta la vita. Oh che gioia colpirli, colpirli, colpirli…
Che liberazione.
Nel processo presieduto dal giudice Hughes una giuria di suoi pari (strana espressione, dato che erano tutti uomini bianchi) la dichiarò colpevole di omicidio. Premeditato, perché nessuna donna nera tiene un martello in casa se non ha intenzione di uccidere il marito nel sonno, colpendolo fino a fargli scomparire la parte sinistra della testa. La stessa giuria che non prese minimamente in considerazione come attenuanti i lividi sparsi per tutto il corpo, né la mano sinistra quasi inutilizzabile da quando il compianto Steve Roach gliel’aveva chiusa con forza dentro un cassetto.
Omicidio premeditato. E in Louisiana per questo c’è la camera a gas.
A quel pensiero sussultò, capendo dove si trovava.
Il buio era assoluto, lo spazio ristretto al massimo…
Capì e accettò la sua condizione, chiudendo gli occhi per sempre.
Nello stesso momento la prima palata di terra colpì la bara.
TUMP!
«Cosa diamine è stato quel rumore?» pensò svegliandosi di soprassalto.
“Esiste l’idea che l’Inferno siano gli altri. La mia è che potrebbe essere ripetizione.”
Stephen King
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