Racconto di Francesca Coppola
(Undicesima pubblicazione)
Le mie mutande erano appese fuori la porta del bagno.
Si raccontava che non fosse successo niente. I bicchieri erano fracassati a terra. Non mi muovevo nonostante gli occhi fossero aperti. Quando chiamarono l’ambulanza, il dormitorio era pieno di ragazzini dall’alito pesante.
“Maria avrà preso qualche pasticca scambiandola per caramelle e ci è rimasta sotto”, questa la storia che girava. Con le braccia strette al corpo, tremavo, mentre venivo caricata sulla barella. Le labbra erano gonfie, gli occhi piccoli e arrossati.
Erano trascorsi tre giorni ed ero ancora al Pronto soccorso. Potevo incutere un certo timore se qualcuno mi osservava, eppure, erano in tanti a girarmi intorno. Me ne stavo in piedi, al centro della sala, poco distante dal triage. Indossavo ancora quella minigonna di jeans chiaro. La gonna era messa al contrario e presentava macchie di sangue. La canotta blu con qualche ricamo bianco metteva in imbarazzo le spalle piccole. Me ne stavo impalata con una bottiglietta d’acqua in una mano, oltreché un’aria – apparentemente – intontita. La guardia giurata di turno, davanti la porta di accesso, non sapeva nulla di me eppure mi fissava. Sembrava volermi schernire come si fa con certi esemplari sotto il tendone del circo. Non davo segni di lucidità, dicevano. Il personale insisteva con la storia del cibo perché non bastava solo bere.
I sandali beige mettevano in evidenza piedi parecchio arrossati. Non volevo stare seduta perché quando provavo a stendermi avvertivo un senso di acidità tipica che, di solito, precedeva il vomito. All’interno della sala d’aspetto le luci erano opacizzate e qualcuna faceva falso contatto. Il condizionatore gocciolava direttamente a terra e l’impiegata che si occupava dell’accettazione dava risposte brevi. Ognuno era intento nei fatti propri, così qualche volta riuscivo a liberarmi per qualche minuto.
«Ha fumato ottanta sigarette in un giorno, ci credo che lo hanno intubato» disse uno.
«Speriamo che stavolta lo capisca, deve assolutamente smettere di fumare» rispose l’altro.
I due uomini sbuffarono sollevando le spalle.
Abbassai da un lato il capo e pensai che doveva essere così la normalità. Approfittai di quattro casi Covid che movimentarono l’intero stanzone per sgattaiolare fuori. Mi sistemai dietro l’ennesima ambulanza, dopotutto mi aveva portata lì, quindi, prima o poi mi avrebbe riaccompagnata a casa.
L’autista appena mi vide urlò e chiamò gli infermieri, fui presa come un sacco di patate e riportata all’interno.
In quella camera c’era sempre chi si pisciava sotto dopo un lasix, chi perdeva sangue durante una trasfusione. Una donna con l’affanno, un altro alle prese con una colica renale. Gli operatori sanitari erano collocati piuttosto lontani, come trincerati dietro a qualche banchetto su cui erano poggiate garze, forbici, disinfettanti e scotch. Cercavo di uscire da quell’inferno ma quasi subito mi ributtavano dentro.
“Ricorda chi è stato il primo a penetrarla?” non avevo risposto all’uomo in divisa.
“Ricorda cosa ha bevuto?” silenzio.
“Ha visto qualcuno metterle qualcosa nel drink?”
“Ricorda quanti ragazzi erano lì con lei?”
“Lei spesso si ritrova in queste situazioni?”
Cosa cazzo vuole dire? Avevo pensato.
Se è capitato altre volte? Avrei voluto urlare!
Altre volte ero stata bloccata, rivoltata, tastata, riempita, schiaffeggiata, offesa?
Mi ero limitata a serrare le gambe, incrociare le braccia, chiudere gli occhi. L’uomo in divisa si era allontanato, aveva allargato le braccia, come a mimare una stizzosa impotenza. Aveva detto qualcosa all’infermiera, che a sua volta aveva chiesto alla dottoressa.
“Sette sperma diversi, shock, studentessa fuori sede, test di gravidanza”.
In quel momento avevo tentato la prima fuga, non ero neanche giunta al maniglione di uscita che un’infermiera mi aveva fermata. Quindi, ero stata ricondotta in prossimità del lettino. Fu allora che lo vidi: c’era un ragazzo steso sulla barella, sul lato destro. Quasi calvo, occhi sbarrati, gli avevano portato un bicchiere di acqua e un numero imprecisato di pillole. Lui aveva finto di ingoiarle, poi non appena i camici bianchi si erano allontanati aveva preso il contenuto dalla sua bocca e lo aveva lanciato sotto il letto.
Non volevo ricordare nessun numero. Mi avevano chiesto, più volte, se avessi voluto contattare qualcuno. Non me la sentivo di chiamare mio padre. Decisi di pensare alle caramelle, protagoniste indiscusse della mia infanzia, in particolare a quelle gelatinose che rubavo dalla vestaglia della nonna. Oppure a quelle che profumavano d’anice la bocca di mia madre. Le caramelle erano sempre buone, pensai.
Avevo atteso la notte, quando il dormiveglia dei paramedici e dei pazienti poteva permettermi di agire. Avevo raccolto quelle strane caramelle un po’ nere e le avevo inserite nella bottiglina che portavo sempre con me.
Presi un lungo respiro, tolsi il tappo alla bottiglia. Fu facile, stavolta, aprire la bocca.
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