Racconto di Gerlando Fabio Sorrentino

(Prima pubblicazione)

 

 

Mi trovavo sul retro del nostro vecchio caffè, un edificio malandato che aveva visto giorni migliori, situato nel cuore del nostro piccolo villaggio di montagna. Avevo le mani avvolte attorno alla mia tazza di caffè, un amaro conforto nella serata fredda. Il vento soffiava attraverso le crepe nelle pareti di legno, portando con sé il richiamo di ricordi non desiderati.

“Ti ho amata, sai,” sussurrai all’aria gelida, come se potesse portare le mie parole a te, là dove ti trovavi ora. Ricordai le linee sottili che avevano segnato il tuo viso nel corso degli anni, ogni ruga una testimonianza silenziosa delle prove che avevamo attraversato. Eppure, ogni linea era diventata un pezzo della mappa che avevo amato esplorare, una parte di te che avevo imparato ad amare.

Ricordavo le volte in cui te ne andavi, quando la tua angoscia diventava troppo grande e ti ritraevi in te stessa, lasciandomi a combattere i miei demoni da solo. Anche nei tuoi momenti di fuga, però, ti ho amata. Perché sapevo che era il tuo modo di proteggermi, di cercare di risparmiarmi dal tuo dolore.

Ti ho amata anche quando il tuo tormento diventava troppo grande e le tue unghie si spezzavano sui miei polsi mentre cercavi disperatamente di aggrapparti a qualcosa, a qualcuno che non fosse soltanto un fantasma. E ogni volta che le tue parole divenivano affilate come lame, pronte a fendere il mio cuore, ho resistito. Perché, per quanto fosse doloroso, era un dolore che condividevamo, che rendeva il nostro amore più vero.

Così, mi trovavo lì, seduto da solo con il mio caffè e i miei ricordi, parlando all’aria gelata della notte. Invocavo il passato, pregando che avrebbe potuto portare le mie parole a te.

“Ti ho amata, sai,” ripetevo, “l’ho fatto con tutto me stesso.” E sapevo che, nonostante tutto, lo avrei fatto ancora, come in tutte quelle mattine del nostro passato.

Quelle mattine erano un misto di quiete e caos. I raggi del sole filtravano dalla finestra rotta, dipingendo la nostra stanza con i colori dell’alba. Ci ritrovavamo ancora a letto, avvolti in lenzuola sgualcite, mentre la città si risvegliava lentamente.

Ci perdevamo in discorsi inutili, parole pronunciate a bassa voce che non avrebbero mai avuto senso per nessun altro. Parlavamo di sogni dimenticati e speranze perdute, di giorni passati e di quelli a venire. Nonostante le banalità, c’era qualcosa di confortante nel riproporre, puntualmente, il ritmo familiare delle nostre conversazioni mattutine.

La nostra vita era un collage di noie e piccoli fastidi, il tipo di cose che si accumulavano fino a diventare insopportabili: rumore, colori., profumi, vita. In ogni angolo, ogni crepa, ogni granello della nostra camera da letto, si sprigionava il caos, un vivido disegno di ciò che eravamo. Cartacce, strappate e sgualcite, danzavano nel vento che entrava dal buco della finestra, scontrini della spesa testimoniavano discussioni accese anche per questioni di soldi, contrasti triviali e trascinanti riappacificazioni.

Le tue pattine, lasciate a metà strada tra l’armadio e il letto, raccontavano le notti in cui ballavamo nudi, perdendoci l’uno nell’altra, ignorando il mondo esterno. Al centro, il nostro letto – un’isola disordinata in un mare di caos, un rifugio, un santuario.

Il comodino ospitava il caffè che ti portavo ogni mattina, una pacifica routine in mezzo al tumulto. Lo sguardo, poi, cadeva sulla cenere del tuo sigaro sparsa sui lenzuoli bianchi, piccole isole grigie in un mare di cotone. Segni di te, del tuo pensiero, delle tue notti insonni passate a contemplare le ombre sulla parete.

E, in un angolo, i tuoi stivali senza tacco, quasi a celare una parte monca di te, una mancanza che volevi riservare solo a te stessa. Un segreto ben custodito tra le pareti di questa stanza, dove ogni oggetto, ogni colore, ogni profumo era un capitolo del nostro racconto d’amore.

Sì, era caos. Era disordine, ma era il nostro e lì in mezzo trovavamo la nostra armonia, il nostro passo. E non avrei voluto niente di diverso. Questo era il nostro mondo, pieno dei piccoli momenti di pace che riuscivamo a strappare come una tregua. Come quando ti portavo il caffè a letto, la tazza ancora fumante tra le mani, e tu sorridevi ancora assonnata.

O quando fumavi le tue sigarette, il fumo si avvolgeva attorno a te come un manto, i tuoi occhi sembravano smarrirsi in pensieri lontani. Mi piaceva guardarti in quei momenti, quando eri solo tu, la sigaretta e i tuoi pensieri. E i baci che ci scambiavamo, baci di tabacco che sapevano di te e di me, di noi. Non erano baci romantici, ma erano nostri, e per questo li ho amati.

Tutti questi piccoli momenti, le noie quotidiane e le piccole gioie, erano diventati parte di noi. E nonostante le sfide, nonostante i momenti in cui l’odio sembrava sovrastare l’amore, ti ho amata. E l’ho fatto con tutto il mio cuore. L’ho fatto perché ogni pezzo di te, ogni ruga, ogni cicatrice, ogni sorriso, era diventato un pezzo del puzzle che componeva la mia vita, la nostra vita. E non avrei voluto che fosse diversamente.

C’erano momenti in cui il tuo dolore si trasformava in rabbia, una tempesta che minacciava di distruggerci entrambi. E in quei momenti, ti odiavo. Odiavo il modo in cui ti facevi del male, come se la vita non ti avesse già dato abbastanza da sopportare.

Vedevo il tuo dolore manifestarsi in modi subdoli, come un veleno che ingerivi lentamente, un giorno dopo l’altro. Una sofferenza che poi vomitavi su di me, sotto forma di parole taglienti e azioni irragionevoli. Mi spezzavi il cuore ogni volta che ti allontanavi da me, ogni volta che mi guardavi con quegli occhi freddi.

I tuoi disprezzi silenziosi erano peggiori delle tue parole. Era come se tu stessi cercando di respingermi, di costringermi a odiarti quanto te stessa. Ma non potevo. Non importava quanto tu fossi crudele, non importava quanto fossi distante, non potevo smettere di riconnettermi a te.

Perché in quei momenti scorgevo la lotta più autentica che stavi affrontando. Vedevo quanto fosse grande il tuo dolore, quanto fosse difficile la tua battaglia. E sapevo che, nonostante tutto, eri ancora qui, ancora a combattere. E in quei momenti, amavo ancora di più la tua forza, la tua caparbietà, la tua determinazione a non lasciarti abbattere.

C’è stato un momento in cui la tempesta è diventata troppo grande, troppo violenta. Un momento in cui la nostra casa d’amore, costruita con cura nel corso degli anni, è stata spazzata via. Mi sono trovato fuori dalla tua vita, come un estraneo che guardava attraverso una finestra chiusa. A volte, ho avuto l’impressione che mi avessi semplicemente lasciato fare come mi pareva, come se fossi diventato irrilevante per te.

Eppure, nonostante il mio esilio, l’amore che provavo per te non è svanito. Ho continuato ad amarti, anche quando sono stato dimenticato, anche quando la tua presenza nella mia vita è diventata nient’altro che un ricordo sbiadito.

Ci sono state notti in cui ho camminato per le strade deserte del nostro villaggio, sperando di incrociarti. Sperando che forse mi avresti cercato, che forse avresti sentito la mia mancanza come io sentivo la tua. Ma quelle speranze si sono dissolte con il passare del tempo, sostituite da un vuoto che sembrava inghiottire tutto.

Ma non ho mai smesso di ricordarti. Ogni mattina, quando mi svegliavo nella solitudine della mia stanza, pensavo a te. Ogni notte, quando guardavo le stelle nel cielo nero, pensavo a te. Ogni momento, ogni respiro, era impregnato di te. Sì, ho continuato ad amarti, perché non importava quanto fossi lontana, non importava quanto fossi cambiata, eri ancora tu.

Nel mare di ricordi che ho di te, alcuni brillano più luminosi degli altri. Mi tornano in mente le tue risate roche, i sorrisi che mi regalavi anche nei momenti più bui. Mi tornano in mente le volte in cui ti prendevo in giro, i momenti in cui la nostra vita sembrava essere più di scherzi e risate che di lacrime e rabbia.

Ricordo una volta in cui ti sei girata verso di me, il fumo della tua sigaretta ti danzava intorno, accarezzandoti il viso. Ti ho detto:

“Ecco, oltre alla noia adesso hai pure un filo di barba!”

Un commento leggero, fatto più per strapparti un sorriso che per altro. E tu hai risposto con quel sorriso che mi faceva sempre sentire come se avessi vinto un premio, un sorriso che illuminava il tuo volto e i miei giorni. Mi hai guardato, quei tuoi occhi che raccontavano storie che le parole non potevano esprimere, e poi hai riso. Un riso roco, pieno di vita e di amore.

“Scemo,” mi hai detto, la voce carica di affetto.

Quella parola, pronunciata con la voce più roca e carnale che abbia mai sentito, è rimasta con me. Era più di un semplice insulto, era un’affermazione d’amore. Un modo tutto tuo per dirmi che, nonostante tutto, mi amavi.

E io lo sapevo, lo sapevo che mi amavi. Nonostante tutto quello che era successo, nonostante le distanze di ogni tipo che ci separavano, io sapevo che ti sentivi legata a me. E quella consapevolezza mi dava la forza di andare avanti, di sperare in qualcosa di meglio.

La nostra era una storia tutta nostra, Matilde. Non era una di quelle storie che leggi nei libri o vedi nei film. Non era l’amore perfetto, liscio come la seta, senza alcuna macchia o imperfezione. Il nostro amore era ruvido, come una roccia scolpita dagli elementi. Aveva spigoli e curve, aveva crepe e fessure. Era un amore pieno di imperfezioni, proprio come noi.

Le nostre giornate erano spesso piene di sfide, di momenti in cui sembrava che tutto stesse per crollare. Gli scontri di personalità, le divergenze di opinioni, le tensioni quotidiane che si accumulavano come nuvole minacciose all’orizzonte. Ma poi, come la pioggia che lava via la polvere, venivano i momenti di riappacificazione, di comprensione, di amore profondo. E in quei momenti, sentivo che non avrei potuto desiderare nulla di più perfetto.

Le tue rughe, i tuoi difetti, le tue idiosincrasie… Tutti questi erano parte di te e li amavo perché erano parte del quadro complessivo di chi eri. Erano le pennellate su tela che formavano la tua unicità, le note nella melodia che componeva la tua essenza, incluse quelle stonate e discordanti.

E in mezzo a tutto questo, c’è sempre stato il tuo sorriso, Matilde. Un sorriso che illuminava i giorni più cupi, un sorriso che mi dava la forza di non perdermi. Mi sorridevi come si fa dal finestrino di un treno, con quel senso di distanza e di vicinanza insieme. Un sorriso che sembrava dire:

“Siamo separati, ma ancora vicini. Stiamo andando via, ma siamo ancora qui.”

Non avrei rinunciato a neanche un singolo respiro di quel tempo con te. In ogni scintilla di disordine, c’era un pezzo di noi. Continuerò a navigare in questo chiasso dell’anima, a decifrare questo rompicapo, ad alimentare questo amore, finché avrò un singolo battito da donare.

Nonostante tutto, nonostante noi.

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