Di Rosa Angela Bozzi
(Prima pubblicazione – 23 novembre 2020)
“Non sempre le nuvole offuscano il cielo: a volte lo illuminano”.
Elsa Morante
Stanno percorrendo la strada collinare provinciale a bordo di un furgone Iveco bianco. Sono in tre, donne, sedute sui sedili della guida, nell’abitacolo. Vanessa è in mezzo alle due giovani, entrambe brune, con i capelli lunghi raccolti dietro, una a coda e l’altra con un fermaglio. Pare che già si conoscano da qualche tempo, devono essere abituate allo stare insieme, parlano mentre le braccia magre, un pochino abbronzate dal sole del finestrino, della guidatrice, si muovono sicure nel gestire il volante. Si vede che è pratica ed esperta. Le altre due si sentono sicure del loro autista.
Sono all’incirca le due pomeridiane e c’è un bel sole tiepido.
L’altra donna a destra di Vanessa è più minuta, delicata, silenziosa. Stanno ridendo mentre la radio va in sottofondo.
Non conosciamo la loro mansione, perché stanno sul furgone. Vanessa guarda il cielo mentre fanno la discesa di cento metri che costeggia la chiesa, nel centro abitato. Nello scorcio tra chiesa e case di fronte, nell’incrocio prima della piazza, scorge le nuvole.
Sono strane. Lo nota solo lei. Mai viste così.
In un attimo raccoglie i pensieri su quante volte ha perso la testa negli infiniti e volubili disegni e colori delle nubi nell’arco della sua esistenza, come ogni volta si è accesa la sua fantasia nella varietà e mutevolezza di quelle particelle d’acqua sospese nell’atmosfera, che formavano meteore interpretate con la fantasia. Stavolta c’è qualcosa di strano.
Si stropiccia gli occhi. Non è stanca, anzi, ha riposato benissimo. Niente da fare: le nuvole sono tonde e allineate quasi tutte uguali, a palla, distanziate una dall’altra come in una matematica distribuzione su una linea retta.
La forma di quelle nuvole è insolita davvero. Batuffoli di cotone o palle di neve che potrebbero farci la testa dei pupazzi in inverno, dal grigio scuro al bianco, come pietre rotonde stanno disposte, su quel cielo terso, azzurro chiaro, pronte. Pronte a cosa? Che vuol dire?
“Ehi, avete visto il cielo?”
“Vane, sto guidando, io non vedo nulla “-dice l’autista.
“Io neanche” –esclama l’altra alla sua destra.
“Mah, sono allucinata io?” si risponde Vanessa. E ridono complici, intanto che il tempo trascorre mentre continuano a viaggiare sull’Iveco bianca finché arriva la sera.
Vanessa è rimasta turbata da quella vista e non le sono mancati momenti in cui ha cercato di riflettere su ciò che la sua mente ha visto o registrato. Un fotogramma preciso. Un’istantanea. Un quadro naturale.
Intanto si è alzato un lieto venticello che muove le fronde degli alberi, illuminati dai fari del veicolo, al ciglio della strada. Da dentro l’abitacolo, nonostante non sia freddo, Vanessa osserva quelle foglie dei rami ondulare verso oltre i vetri con i colori dal verde all’argento come li trasforma la luce abbagliante del veicolo e tra sé, pensa che le altre due non possano meravigliarsi di qualcosa che non hanno visto con i loro occhi.
Quella fissità delle nuvole, senza movimento e mutamento adesso non si può né vedere né proporre, poiché è notte e il vento certamente crea forme variegate, instabili, cangianti. Sì, ora c’è il vento e non ha senso che insisto, si dice, non mi crederebbero, meglio il silenzio.
Il giorno seguente, di nuovo in viaggio, nello stesso percorso, forse partono dalla piazzetta delle casette, mentre rifanno la stessa strada, affianco alla chiesa, appena s’intravvede il cielo, nello stesso posto del giorno prima, Vanessa guarda di nuovo nella stessa direzione tra la montagna, la casa di Vincenzo e la chiesa.
Di nuovo! Le stesse nuvole, pietre e palle ma stavolta intercalate da sassi tondi, di varie colorazioni e sfumature, come quelle dei fiumi e ciottoli, però rugose non allisciate dall’acqua nello scorrere del tempo, sono lì, messe infila su una linea invisibile-.
Stanno in fila alcune pietre e alcune nuvole, come tenute da una forza che le mantiene sospese. Piccoli meteoriti che stanno sospese in fila, senza gravità, privati di peso, come le stesse nuvole che s’interpongono nella fila.
Eh no- pensa stavolta la donna- qui c’è qualche cosa che non va. Deve accadere qualcosa. Sono passate ventiquattro ore e non posso ritrovare lo stesso spettacolo di ieri, nello stesso posto, alla medesima ora, con adesso anche i sassi senza peso!
“Ehi, – cerca di richiamare l’attenzione delle sue due interlocutrici- guardate là! Ti devi fermare”- rivolta alla guidatrice.
Le due giovani brune non fanno in tempo a risponderle che Vanessa prende il braccio dell’autista, con la sua mano sul suo polso, la preme a fermarla sul volante, gridando: “Ti ho detto che ti devi fermare, lo vuoi capire?” Fermati! C’è il Silenzio di Dio, lo vuoi capire? Ci dobbiamo fermare per inginocchiarci e pregare.”.
Nell’attimo in cui la ragazza alla guida frena, stoppando il furgone, arrabbiata per il gesto di Vanessa, uno di quei massi sospesi, che alla vista precedente sembrava lontano e piccolo, piomba sulla strada, colpendo l’angolo del tetto e del muro della chiesa, come lanciato da una fionda e scalfisce la parte anteriore del furgone, dal lato guidatore, distruggendo l’asfalto davanti al mezzo con le tre donne dentro. È sempre pomeriggio.
Le ragazze non si sono fatte male, si guardano atterrite e incredule. Sconcertate e senza parole, bloccate dall’improvvisa caduta del meteorite restano a guardare dall’abitacolo, mentre tutti escono dalle case.
“Ci si può ancora dunque salvare?”
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