Racconto di Mike Papa
(Ottava pubblicazione)
Questa consegna non sta andando per niente liscia come dovrebbe, scivola sempre più verso una negatività che non mi piace.
E non perché è il 24 dicembre: non mi ha mai interessato la nascita del Salvatore, visto come Lui si è girato dall’altra parte quando è toccato a me venire al mondo.
Né perché è una delle mie “notti speciali”: non ci metterò molto, mi ha assicurato l’Architetto.
Toccata e fuga, così si è espresso.
Avrò tutto il tempo per andarmi a godere le ore di buio in uno dei miei posti preferiti.
Il motivo per cui il recapito sta prendendo una piega infelice è che il sacco pesa come l’intero universo, la barba di ovatta ingiallita pizzica come un alveare, la pancia posticcia… puah.
Per non parlare degli stivali di almeno due numeri più grandi.
E non ho elfi che mi aiutino, né una slitta trainata da renne.
Percorro questo cazzo di vicolo con le gambe rese molli dal carico in spalla, sbandando, appoggiandomi al muro di qua e di là.
Destra, sinistra.
Sinistra, destra.
Un altro errore è stato imbottirmi di pasticche, ma speravo che mi aiutassero, affanculo.
Invece col cazzo.
Poso il sacco sul selciato, mi guardo intorno. Una parte della città in cui non sono mai stato.
Oppure che non ricordo affatto.
Vicolo strettissimo, muri a strapiombo, finestre chiuse da anni.
Oppure solo dall’arrivo della sera.
Oppure.
Mi piace il suono pieno di questa parola.
Potrei riempirmici la bocca, ripeterla all’infinito fino alla venuta del giorno.
Oppure. Oppure.
Ma non ho tempo da perdere, tra poco arriverà la Madre e voglio essere lontano, quando succederà.
L’indirizzo che mi ha dato l’Architetto mi conduce alla fine del vicolo, vedo già il portone pitturato di blu, laggiù, illuminato a tratti da un lampione che va e viene.
Poche decine di metri.
Il sacco ai miei piedi si muove.
Potrebbe essere solo un gioco d’ombre.
Tiro fuori una Chesterfield, l’accendo. La mano che regge il fiammifero trema. Per il freddo, spero.
Rimpiango di non aver portato la fiaschetta di gin, ma non pensavo che…
Non pensavo a nulla, a dire la verità.
Quando l’Architetto ordina, tu fai.
Non pensi.
Vicolo dei Calzolari, in fondo. Portone blu.
Vestito da Babbo Natale.
Che enorme stronzata.
Vestito da Babbo.
Perché diamine?
Perché così vogliono i clienti.
Con la merce dentro un sacco, che ho trovato nel retro di un furgone parcheggiato un isolato più a nord, insieme al costume rosso.
Non ho idea di che merce si tratti, stavolta.
Per dirla tutta non l’ho mai saputo.
Non mi interessa.
L’Architetto paga anche per la mia indifferenza.
Recupero il sacco. Sul lastricato rimane una macchia viscida, nella poca luce sembra sangue.
Barcollando e sciacquando i piedi negli stivali smisurati arrivo al portone blu. Due colpi col batacchio. Uno spioncino si apre.
Un occhio enorme, con la pupilla che pare un’oliva affogata nel latte, mi guarda.
«Gli archi…» Un attacco di tosse blocca la parola d’ordine a metà.
Contribuisco al sudiciume dell’acciottolato sputando un enorme grumo di catarro marrone e denso.
Riprendo a fatica il respiro.
«Gli archi del tetto», riesco a finire.
Lo spioncino si chiude. Il portone si apre.
Un gorilla gigantesco, nero come la pece, mi fa entrare. Non è per niente sorpreso dal mio abbigliamento.
«Per di qua», abbaia.
“Per di qua” vuol dire scale che scendono.
Il sacco pesa come non mai, ma il nero dietro di me non accenna ad aiutarmi.
Se fossi sveglio potrei chiedere un extra all’Architetto per tutta questa fatica.
Non è detto che non lo faccia.
Ma chi voglio prendere per il culo. So benissimo che non lo farò.
Due rampe, un piccolo seminterrato in pietra che pare una cripta, rischiarato a malapena da quattro torce agli angoli.
Tre persone che mi attendono con ansia.
Cappotti cammello. Gente altolocata.
«Ecco Babbo Natale coi suoi doni! Mettili lì», dice una delle tre.
“Lì” vuol dire sopra una specie di altare di marmo.
Poso il sacco. Per sempre.
Era ora.
Un’altra delle persone dice: «Ehi, Babbo, vuoi cantarci “Jingle Bells?”»
Tutti ridono, compreso il gorilla.
Io potrei anche accontentarli, conosco quella canzoncina, ma l’Architetto non mi ha dato istruzioni a proposito, quindi faccio per riprendere le scale. Ho finito.
«Un attimo», dice qualcuno, non capisco chi. Ormai sono confuso da tutta quella gente. «Controlliamo la merce.»
Il gorilla mi blocca la strada.
Alzo le mani per dire che sono d’accordo.
Che non me ne frega un cazzo.
In due prendono e ribaltano il sacco sull’altare.
In due.
E io che l’ho portato da solo per tutto quel tragitto.
Puah.
Nel compiere quella fatica i cappotti dei due si aprono. Sotto sono nudi. Vedo pance flaccide, peli ingrigiti e tristi principi di erezione.
Quelli che escono dal sacco per un attimo mi sembrano agnelli scuoiati.
Agnelli. Oppure conigli.
Riecco la parola magica.
Oppure.
Ne cadono almeno una decina dal sacco.
Non sono né conigli né agnelli.
Sono cuccioli di uomo appena sfornati.
Neonati morti.
Alcuni con ancora il cordone ombelicale che fluttua nell’aria.
Quest’aria irrespirabile a cui manca ossigeno.
Vedo quello dei tre che è rimasto immobile passarsi la lingua sulle labbra, come se avesse visto una leccornia.
Magari per lui lo sono.
A me viene il voltastomaco.
«Perfetto, Babbo. Ottimo lavoro. Puoi andare, adesso. Buon Natale.»
Non mi interessa più chi parla, ho la mente piena solo di quei corpicini.
Mi domando cosa ne devono fare, mi domando perché, mi domando che razza di mostri chiedono per regalo di Natale…
Poi considero che l’Architetto non paga per farmi domande.
Risalgo le scale, esco nel vicolo.
Potrei andare via di corsa, ho terminato il lavoro.
Però qualcosa mi blocca.
La luna piena riesce a far capolino tra i muri a strapiombo. Mi bacia sul volto.
Benvenuta, Madre.
Il portone alle mie spalle non si è ancora chiuso. Torno sui miei passi.
Scendo tre gradini, ne risalgo uno, ne scendo altri due, indeciso.
Vado o non vado.
Vado a fare che?
Quei corpicini.
E questa cazzo di barba.
Questa cazzo di pancia.
E L’Architetto.
Mi spoglio del travestimento ridicolo.
Mi avvio risoluto per le scale.
Il primo che incontro è il gorilla che sta tornando su.
Il primo a morire.
Per sua sfortuna non sono mai disarmato, nelle notti di plenilunio.
Le olive affogate nel latte mi guardano sbarrate come se non avessero mai visto niente di simile.
Molto probabile che sia così.
Lo dilanio con le unghie.
Non gli do neanche il tempo di dire “Bah”.
Il suo sangue rende scivolosi i gradini, ma quella melma appiccicosa e infetta non mi impedisce di arrivare nel seminterrato.
Quei tre bastardi, ignari di quello che sta per capitargli, stanno già infierendo sulla mia merce.
I miei doni.
Quando si accorgono di me è troppo tardi.
Non impiego più di un minuto per farne polpette.
Azzanno e squarcio finché i loro liquidi corporei non riempiono tutto il mondo.
Alla fine ululo la mia soddisfazione.
Esco da quella casa degli orrori, alzo gli occhi al cielo e benedico la Madre che ogni mese mi dà tutta questa energia.
Questa seconda vita.
La vera vita.
Potrei raggiungere uno dei miei posti preferiti, oppure fare ciò che va fatto.
Oppure.
Perché diamine questa parola mi piace così tanto?
Decido.
Mi rendo conto che in realtà avevo già deciso giù nel seminterrato, altrimenti non avrei strappato le teste dal collo di quei pezzi di merda.
Non le avrei messe dentro al sacco per farne dono al pezzo di merda supremo.
Invio un ringraziamento alla Madre luna, finalmente me stesso.
Poi mi dirigo verso casa dell’Architetto, col fardello sulle spalle che stavolta mi pare leggerissimo.
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