Racconto di Andrea Melosini

(Prima pubblicazione)

 

Il 16 aprile, quando avevo appena sei anni, seguii papà alla commemorazione della morte dei fratelli Mattei, tra gente con il volto coperto e armi alla mano. Le domeniche, quando la nostra squadra giocava in casa, mi prendeva per mano e mi faceva entrare nella curva dello stadio dove il tifo era più caldo e agguerrito. Un pomeriggio, quando la mamma stava da alcune amiche, nel cortile dietro casa, mi mise in mano un fumogeno e mi porse un accendino. Il fumo era uno spettacolo, ma al suono delle sirene della polizia mi urlò di correre più svelto che potevo. Invece di dare due calci al pallone, mi spronava a praticare la boxe. Diceva che un giorno mi sarebbe tornato utile.

A dieci anni mi fece provare una delle sue sigarette Marlboro rosse, sempre di nascosto dalla mamma. Al primo accenno di tosse mi diceva che era normale e che col tempo avrei apprezzato. Quando compii tredici anni, mi portò in una via consolare appena fuori il raccordo e mi lasciò in macchina con una donna sconosciuta. Ricordo che durante il tragitto mi ripeteva: «Oggi diventerai uomo». Al ritorno invece disse: «Sono orgoglioso di te». L’orgoglio per papà era tutto. Quando a sedici anni venni espulso dalla scuola perché avevo avuto un atteggiamento violento nei confronti di un insegnante, i suoi occhi erano compiaciuti, nonostante davanti la mamma fingesse di rimproverarmi. Alla morte di mia madre non versò nemmeno una lacrima, poi mise la cornice con la sua foto sull’altarino accanto al busto del Duce. Adorava quel busto. A volte se ne stava fermo a fissarlo per ore. Poi si metteva sull’attenti e alzava il braccio destro.

Il giorno dopo il mio diciottesimo compleanno portai a casa una ragazza conosciuta in discoteca qualche tempo prima. Alla vista del busto mi chiese perché fosse lì, io le dissi che faceva parte del passato.

Quattro anni dopo morì seduto in poltrona, con in mano una vecchia copia ingiallita del Popolo d’Italia, l’unico giornale che leggeva. Al suo funerale non versai nemmeno una lacrima. Dopo la funzione, corsi a casa e misi dentro uno scatolone il busto del Duce e tutti gli altri oggetti presenti sull’altarino, scesi in cortile, quello dietro casa, e diedi fuoco al contenuto. Mentre la fiamma divampava e il fumo si alzava fino a raggiungere le finestre aperte delle case dei vicini, mi accessi una sigaretta. Ero orgoglioso di quello spettacolo. Poi al suono delle sirene della polizia, mi misi a correre lontano.

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