Racconto di Silvio Fazio
(Decima pubblicazione)
Nuvole frangono in scie di aerei e all’orizzonte il cielo si sta tingendo con i colori del fuoco e del miele.
La luce tiepida e dorata ha lasciato la sua ultima carezza sulle cose e un lampo viola trionfa, ancora per un attimo, sul buio.
In sere come questa, la mia anima naufraga nella musica, nei colori, nei pensieri degli uomini e allora non so più se mi è più lontano l’infinito o le case al di là della mia finestra.
Strofino la lampada magica del Genio e insieme al suo fumo escono ricordi, come spezzoni di film, immagini sepolte negli infiniti spazi della mente.
Mi accendo una sigaretta, accenno col fischio una ballata, vesto la cravatta più viva ed esco a confondermi con la gente.
Cammino, c’è folla, tanta folla. Le persone si urtano quasi tra loro ma sono istanti di contatto tra sconosciuti.
Colgo brani di discorsi, parole, frasi, suonerie di cellulari, rumori, rumori, ancora rumori.
Vorrei invece avere orizzonti infiniti e un silenzio assoluto o una sola voce che canta.
Cerco parole vere, parole che accarezzino il cuore, parole e sguardi di gentilezza, di tenerezza, di attenzione profonda. Ma non ne sento.
Cammino come un ubriaco, scartando le persone per non urtarle e il mio corpo, piano piano, sembra quasi atteggiare un passo di danza che via via diventa più consapevole e fluido.
Ballo allora tra la gente che non capisce e guarda stupita. Ballo abbracciato a me stesso, a un me stesso che cambia continuamente aspetto, assumendo le varie sembianze dai film della memoria delle mie tante età vissute.
Intanto la musica diviene sempre più forte, più veloce, e ora sono come uno dei dervisci che ruotano per trovare l’estasi e tutto mi gira intorno.
Giallo, rosso, arancio, quadrato, triangolo e ancora quadrato. Dolore, gioia, angoscia, felicità, passione, solitudine. Trasformata in un caleidoscopio, la mia mente ruota immagini e colori finalmente senza senso.
Poi, tutto si ferma, la musica tace. Guardo il cielo, e il cielo mi guarda, immobile, come tutto il resto delle cose.
Intorno a me solo palazzi e strade. E nei palazzi le luci nelle case illuminano stanze, cucine, tavoli, scrivanie, giovani, anziani, bambini, persone che si muovono, ognuna inconsapevole dell’altra, ognuna con i propri sogni, con la propria storia, le proprie speranze e disperazioni, con i loro vuoti che non sanno come riempire, che forse non sanno nemmeno di avere.
Mi sembra di sentire lacrime silenziose, pianti di bambini, grida represse o urlate per rabbia, per sfinimento. La luce azzurrina dei televisori massifica tutte le vite, le attese, i desideri, i pensieri, i divani, le pantofole, i letti, le conversazioni.
E noi, umani, dove siamo noi? Non ci troviamo, dov’è l’altro?
Eppure, penso che tutte queste solitudini potrebbero diventare una preghiera dolcissima o un coro di miliardi di voci che cantano insieme e che sale potente verso il cielo con la speranza di qualcuno in ascolto.
Non sono nulla, io, ma vorrei spargere tenerezza, dolcezza e bellezza, vorrei consolare, curare, aiutare, accarezzare, abbracciare, colmare di doni, esaudire desideri, far sorridere, regalare le parole giuste, vorrei che tutti, ma proprio tutti, contagiati da una pandemia di tenerezza si prendessero per mano, mani tenere o rugose, piccole o grandi, di qualsiasi età e colore e iniziassimo a fare un girotondo.
Un girotondo infinito, infinito nello spazio e nel tempo o basterebbe anche solo per un attimo.
Poi, cadere tutti giù per terra, senza fiato e guardarci, con un sorriso e gli occhi umidi, finalmente.
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