Racconto di Giulia Ancona
(Prima pubblicazione)
Giuseppe pensò che quella mattina qualcosa in lui non andasse. Come ogni giorno se ne stava seduto su una panchina del parco, quella di sempre. Dava da mangiare ai suoi amici piccioni e prendeva il sole. Tutto intorno era un brulicare di ali e un gorgoglio di gru gru. In migliaia gli uccelli arrivavano da ogni dove, radunandosi ai suoi piedi in attesa che aprisse il sacchetto e pian piano lanciasse nell’aria manciate di becchime. Gli uccelli si addossavano fra loro per catturare un chicco di granturco, quindi prendevano il volo per poi riplanare e rubarne un altro. Giuseppe godeva di quello spettacolo e di quella meravigliosa vita che ogni giorno lo avvolgeva. Ma quella mattina non era come le altre. Un insolito fremito lo stava pian piano catturando facendolo tremare come non mai. Sia purea malincuore, quindi, si disse che era meglio tornarsene a casa. Con grande sforzo si alzò dalla panchina e benché si reggesse in piedi a malapena, prese a camminare con passo assai veloce. Migliaia di ali si alzarono con lui in volo seguendolo quasi fosse un peschereccio nella cui scia, i gabbiani si tuffano speranzosi di catturare qualche pesce venuto a galla nelle loro reti. Giuseppe salì le scale a fatica e, aperta la porta di casa, si catapultò sul vecchio divano situato sulla parete di fronte, cadendovi sopra come fosse un sacco di patate. Si distese senza togliersi il cappotto e, tirato su il bavero, pensò di riposare un po’. Si disse che tutto si sarebbe risolto con una bella dormita e che quel terribile freddo lo avrebbe presto lasciato in pace. Il sole si alzò alto nel cielo portando con sé un vento gelido di tramontana che ululava sempre più forte fuori dalla finestra della stanza.
-Troppo freddo per uscire, questa mattina- si disse Giuseppe, dal giorno prima raggomitolato sul divano nel suo cappotto – Oggi i miei piccioni dovranno arrangiarsi. –
Aveva chiuso gli occhi ed era ricaduto in quel torpore che da ore lo aveva catturato. Aveva visto i suoi amici uccelli volargli intorno numerosi. Accoglierlo nel parco, sulla sua panchina assolata. Planargli vicino e, senza alcun timore, beccare il granturco dalla sua mano quasi fosse una ciotola.
Ma la panchina quel giorno restò vuota. E così il giorno seguente e altri ancora. Anche i colombi si erano arresi. Avevano smesso di aspettarlo ed erano volati altrove, scacciati via dal suono continuo di sirene che, sempre più numerose, sfrecciavano in quella zona.
-Povero vecchio, sono giorni che è bloccato in questo letto e nessuno ha chiesto di lui. Non ha un figlio, una moglie, un parente che possa dirci qualcosa e che si preoccupi per lui? Chi sia e da dove venga nessuno lo sa!-
Lo avevano trovato, nel parco dell’ospedale. Se ne stava steso su una panchina. Semi- incosciente, in stato di ipotermia, con una mano colma di becchime per uccelli.
Erano passati diversi giorni da quando Giuseppe non si era sentito più in piena forma, si fa per dire. Era rimasto chiuso in casa in attesa della ripresa, ma inutilmente. Anzi, la situazione era andata di male in peggio, per cui una mattina aveva pensato di chiedere aiuto in ospedale. Ne avrebbe approfittato, anche, per dare da mangiare ai suoi amici piccioni, visto che era di strada.
Così, bianco come uno spettro e magro come un chiodo, si era imbacuccato di tutto punto, aveva preso un po’ di granturco e, battendo i denti come una scimmia al PoloNord, aveva raggiunto il parco. Ma ben presto le forze lo avevano abbandonato e si era steso sulla panchina in attesa dei suoi piccioni. E li lo avevano trovato quelli che si recavano in Ospedale per il turno di notte.
Due infermiere parlottavano tra loro mentre con fare rapido e preciso eseguivano le operazioni di cura e pulizia del malato. Aghi e tubicini uscivano da quel corpo da ogni dove. Come ad un palombaro, un grosso casco trasparente gli era stato infilato sul capo fino al collo e nel suo interno un compressore pompava aria con un suono incessante che scuoteva i timpani.
-Non dimenticare prima di andar via di aprire un po’ la finestra per il ricambio d’aria – disse la portantina alla collega con cui rassettava la stanza – Ma mi raccomando, aspetta che quel piccione sia volato via!
Da giorni, infatti, un piccione aveva preso a stazionare sul davanzale della finestra. Puntualmente, alla stessa ora lo si vedeva arrivare. Si fermava tranquillo e guardava all’interno della stanza gorgogliando ripetutamente. Quando il personale aveva finito di riassettare tutto e, sistemato il malato, con un gru gru più forte spiccava il volo e si allontanava. La cosa si stava ripetendo da troppo tempo iniziando a suscitare la curiosità del personale.
-Questo poveretto sembra non voler tornare a vivere. I suoi parametri vitali sono migliorati, ma lui si è arreso. Maledetto Covid sta mietendo più morti di una guerra. –
-Proviamo a lasciare la finestra aperta, vediamo cosa succede! – disse, allora, la giovane dottoressa che aveva preso a cuore il vecchio sconosciuto – Forse l’aria e il sole sapranno dargli una spinta a riaprire gli occhi e tornare a vivere!–
E fu così che quella mattina, prima di andar via, le inservienti lasciarono la finestra socchiusa. Stava nevicando e l’aria era piuttosto fredda, ma i suoni della strada e l’odore della neve, avrebbero potuto fare il miracolo.
-Eccolo che arriva! – esclamò l’infermiera sigillata nella sua tuta bianca – Puntuale come sempre. Anche oggi che fa un freddo cane, ed ha ripreso a nevicare –
Il piccione era lì sul davanzale e, come si fa con una fidanzata, aveva preso a tubare. Si muoveva più del solito, forse per il freddo, si disse l’infermiera, nascondendosi dietro l’armadietto che era nella stanza e cercando di non perderlo mai di vista. Il colombo si muoveva senza sosta. Studiava lo spazio intorno a se poi si fermava. A un certo momento parve rendersi conto della finestra aperta e che nessuno fosse in camera. Con una mossa fulminea spiccò il volo, attraversò la finestra e si andò a posare sul letto del vecchio, proprio davanti al suo casco. L’infermiera stava per intervenire e cacciarlo, ma qualcosa la fermò. Rimase nascosta a guardare la danza e il canto di quell’uccello che sembrava felice come non mai. Apriva le ali muovendole quasi volesse dare sollievo al vecchio. Quel battito d’ali colpì dolcemente la superficie del casco. A quel tocco il vecchio sembrò riemergere dal torpore mortale in cui era piombato. Le palpebre si mossero leggermente e con uno sforzo immane cercò di aprire gli occhi. Così non fu, ma una mano si mosse a toccare quelle ali che lo stavano chiamando alla vita. E fu allora che l’infermiera uscì dal suo nascondiglio costringendo il colombo a volare via.
La notizia dell’accaduto si propagò in ospedale e il personale, incredulo, attese di vedere cosa sarebbe accaduto la mattina seguente. E fu così che, dopo il riassetto della camera si lasciò la finestra aperta per aspettare l’ospite. Questo non si fece attendere e, assicuratosi di essere solo, volò sul letto del malato. Con il piccolo becco prese a picchiettare dolcemente su quel brutto casco che impediva al suo amico di parlargli e sorridere. Ed ecco due occhi aprirsi pian piano e una mano scheletrica accarezzare quel corpicino che lo stava salutando. Il colombo non si mosse. Restò immobile avvicinandosi ancora di più per facilitare il gesto del vecchio. Le infermiere impietrite da tanta tenerezza restavano nascoste, mentre le lacrime rigavano i loro volti.
Le mani di Giuseppe non abbandonavano quel corpicino che, con il suo leggero battere d’ali sembrava volerlo portar via con sé. E fu così che, giorno dopo giorno, Giuseppe ritornò alla vita. A quella vita di cui nessuno si era interessato, ma che tanto cara era per quel suo amico.
Presto l’ospedale fu un brutto ricordo. Tornò a casa e si disse che avrebbe ripreso la sua vita. Sarebbe tornato alla panchina, avrebbe chiesto scusa ai suoi amici piccioni e sarebbe rimasto sempre con colui che non lo aveva mai lasciato solo. Il piccione, infatti, non lo aveva più lasciato e viveva sul davanzale di una delle finestre della sua casa.
Intanto la storia di Giuseppe aveva fatto il giro dei social.
Lettere erano giunte da ogni dove, offrendogli sostegno e amicizia. Giuseppe ringraziò tutti, ma nel suo cuore sapeva che, senza il battito d’ali del suo unico amico, un piccolo piccione, non sarebbe mai tornato a vivere.
Che dire? …profondità unica, che ha segnato noi lettori a livello spirituale e morale. Una storia intensa, che porta alla riflessione. Un racconto ricco di emozioni e sentimenti.
Grazie, carissima. Sempre gentile
e presente.
Una storia dolcissima, semplice ma ricca di tante implicazioni che spingono a riflettere sulla fede non solo in Dio ma nella natura che è una Sua creatura. Che ci porta a ricordare che della natura noi siamo parte e creature non onnipotenti ma fiduciose. Una scrittura come sempre ineccepibile. Una carezza sul cuore che a tratti sembra inaridirsi. Grazie Giulia questi sono regali. Regalaci ancora cose così.
Ida, le tue parole, come sempre, riescono a colpire la mia anima. Grazie!
Sei bravissima , le tue storie arrivano dritte dritte fino al cuore, c’è tanta Umanità. 😘
Sei molto brava, e nei tuoi racconti si nota la tua sensibilità e la tua bontà d’animo. Mi piace tanto questa storia.Brava 😘
Che dire: grazie, Margherita!
L’amore è universale, appartiene a tutte le creature viventi comprendo benissimo… è un racconto che entra
come una piuma svolazzante nel nostro animo… delicata e “nobile” amica 🐦
Sei tu che entri nel mio cuore!