Racconto di Davide De Vita
(Prima pubblicazione)
La bambina aveva gli occhi chiari come acqua di mare cristallina, a metà tra il celeste e il grigio perla; correva a piedi nudi tra corridoi infiniti facendo svolazzare il vestitino azzurro. Ad ogni svolta del labirinto la stoffa pareva consumarsi, mentre lei correva più veloce, senza emettere alcun suono tra grigie pareti scrostate e macerie annerite. “Hope”, doveva chiamarsi “Hope”. Il sergente Blanco ne era sicuro, ma ogni volta che provava a pronunciare quel nome il sogno svaniva.
Doveva muoversi: tra le primissime cose apprese in addestramento c’era “in azione non dormire mai due volte nello stesso posto”; quella, più altre regole che fino a quel momento aveva rispettato alla lettera, lo stavano tenendo in vita.
Sì, anche aver eliminato fisicamente ogni altro occupante – o quasi, qualcuno era riuscito a scappare – della base militare in cui si trovava gli aveva facilitato parecchio le cose, ma quella era la fine del mondo, non si poteva andare tanto per il sottile.
Era riuscito a sopraffare tutti gli altri in quanto miglior combattente del corpo d’élite presente – gli veniva da ridere quando ci ripensava – per difendere gli altissimi ufficiali di quella stessa base.
Gli avevano insegnato mille e un modo per uccidere fornendogli ogni mezzo per farlo: era stato facile. Tutti si fidavano di lui, primo enorme errore. Loro. Così aveva avvelenato prima tutti i suoi compagni, gli unici che – addestrati quanto lui – sarebbero stati un problema. Subito dopo aveva scagliato un grappolo di granate a frammentazione nella sala del circolo ufficiali.
Con tutti loro dentro.
Aveva quindi dato la caccia a tutto il personale rimasto.
Era impazzito?
Probabile.
Aveva importanza? Per niente, quella era la fine del mondo, ma Blanco voleva sopravvivere, a tutti i costi: meno persone nella base, più cibo e acqua per lui.
L’energia della base era fornita da due piccoli reattori nucleari di ultima generazione, sicurissimi e in sostanza inesauribili.
Una volta accertatosi di essere rimasto solo, aveva ammucchiato i cadaveri nelle celle frigorifere, quindi, raggiunta la sala comunicazioni, aveva avuto la conferma che . . .
Non ce n’erano più, da nessuna parte del pianeta.
Agli schermi dei computer e su quello enorme che occupava la parete frontale arrivavano dai satelliti immagini di desolazione e morte provenienti da ogni continente. Palazzi crollati sulle strade, fumo ovunque, auto e veicoli di ogni tipo scaraventati dentro negozi o case, oppure accartocciati le une negli altri.
Sugli oceani, navi e imbarcazioni di ogni genere erano ferme, molte in fiamme.
C’era la forte probabilità che lui fosse l’ultimo uomo rimasto sulla Terra, ma l’istinto del cacciatore gli suggeriva che non poteva essere così, perciò doveva ancora stare in guardia, sempre.
Aveva cominciato a verificare le difese del perimetro della base qualche settimana prima, lo stesso periodo in cui si erano manifestati i primi sintomi – brucianti fitte allo stomaco – di un malessere al quale non sapeva dare un nome.
Era addestrato a combattere contro chiunque e sapeva curare una frattura, un morso di serpente, ferite da taglio o da arma da fuoco, estrarre un proiettile e ricucirsi, ma l’ultimo dei sopravvissuti aveva bisogno, con sempre maggiore urgenza, di un medico.
Cercando di ignorare le fitte sempre più dolorose e trovando inutile la farmacia della base, pur fornitissima, non sapendo quali medicinali prendere, aveva piazzato alcune mine antiuomo sotto il reticolato che delimitava il perimetro.
Ne erano esplose tre, ma potevano essere stati degli animali a farle saltare.
L’ errore tattico gli era apparso chiaro troppo tardi: aveva aperto dei varchi.
Da allora dormiva qualche ora negli angoli più nascosti all’interno del vasto complesso di edifici, portandosi dietro quante più armi e munizioni possibili e lo stretto indispensabile per nutrirsi e dissetarsi.
Sentiva il pericolo, l’istinto si era sviluppato fin troppo in lui e affacciandosi all’esterno aveva avuto la certezza di non essersi sbagliato.
I dolori si facevano sempre più frequenti e lancinanti e sì, c’era un nemico all’interno del perimetro.
Nei giorni precedenti gli era parso di scorgerlo rotolare e nascondersi dietro un cespuglio nel tentativo di avvicinarsi agli edifici che formavano la base vera e propria, al centro del perimetro (tentativo che militarmente aveva apprezzato: si sarebbe mosso nello stesso modo), poi però, approfittando di un rarissimo istante in cui era rimasto scoperto – fottuti dolori – il nemico gli aveva sparato, mancandogli la testa di pochi centimetri.
Da allora si erano dati la caccia a vicenda e, Blanco doveva ammetterlo, il maledetto tizio sapeva il fatto suo.
Oppure la fottuta malattia, qualunque essa fosse, gli stava facendo perdere colpi.
Il prossimo, di colpo, sarebbe stato quello decisivo: Blanco si trovava sul tetto dell’edificio più alto del compound e inquadrava nel mirino del fucile semiautomatico (un Garrett di precisione sarebbe stato meglio, ce l’aveva, ma il tizio gli avrebbe sparato mentre provava a montarlo, per questo aveva lasciato perdere) un rialzo del terreno dietro il quale era certo si nascondesse il nemico.
Quest’ultimo, ormai stanco di quella reciproca caccia all’uomo, commise l’ultimo errore della sua vita: cambiando posizione sul terreno, dov’era sdraiato ventre a terra, offrì l’intera gamba sinistra alla vista di Blanco e del suo fucile.
I tre colpi partirono in rapidissima successione e spappolarono la gamba del nemico.
Forse era ancora vivo, ma non ne avrebbe avuto per molto; Blanco doveva accertarsene, per cui, stringendo i denti per i dolori al ventre, scese dal tetto dell’edificio, raggiunse il terreno scoperto e pronto a sparare ancora, si avvicinò all’uomo colpito.
Una volta raggiuntolo, lo volle vedere in volto: gli levò l’elmetto e si trovò di fronte ad un viso di donna. Non uno qualunque: lei si voltò, tremante e. . .
Due occhi chiari come acqua di mare cristallina, tra il celeste e il grigio perla si fissarono nei suoi.
Blanco si ritrasse e cadde a sedere per terra.
La donna soldato ebbe un sussulto, sarebbe morta dissanguata entro pochi istanti.
Lui si avvicinò di nuovo, scosse la polvere dalla mimetica e lesse il tesserino di riconoscimento custodito nell’apposita tasca trasparente della mimetica:
«Tenente Colonnello Hermes Magdeleine Hope, Primo Ufficiale Medico base. . . »
Hope.
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