Racconto di Luca Tabanelli

(Prima pubblicazione)

 

 

 

Solo, e bianco. La neve, che stava ancora scendendo piano, aveva coperto tutto; i tetti delle case, il verde della campagna intorno, la strada, lo spiazzo dove avevo appena parcheggiato la macchina e spento il motore.
La posizione era ottima. Diedi un’occhiata in giro; non vedevo nessun’anima nei dintorni.
– Con un tempo così chi vuoi che vada in giro, – pensai.
Presi il cellulare, lo impostai su vibrazione e lo sistemai comodo sul sedile del passeggero.
Spensi la musica della radio, non volevo distrazioni. Ora ero totalmente concentrato e tutto perfettamente in silenzio. Non mi sarebbe sfuggito niente; nessun particolare, nessun movimento, nessun rumore.
Mi accesi una sigaretta, abbassai un minimo il finestrino che stava dalla mia parte, lo guardai un attimo per vedere se il fumo fosse riuscito ad uscire, e saldai gli occhi sulla porta dell’appartamento di Leli.

Mi aveva lasciato e così facendo pensavo forse di trovare un motivo valido, o perlomeno di poter scoprire una ragione, per potergli dire: – Vedi, non sono solo io che rovino sempre tutto!
Ero qui, nella periferia di questo piccolo paese. In questa strada passavano sempre poche macchine. – Figuriamoci oggi.
Ogni appartamento aveva l’entrata indipendente e posti auto in comune nel piazzale del complesso. La macchina di Leli era parcheggiata nel suo solito posto. Mi ero tenuto a distanza, abbastanza da non farmi vedere nel caso lei fosse uscita.
Me la immaginavo dentro in ogni stanza. Sul divano a guardare un film, a letto a leggere un libro, in cucina a prepararsi un infuso, in bagno davanti allo specchio a pensare…, chissà a cosa. Chissà a chi.

Pensieri che non portano a niente. Solo immagini.

Non volevo perderla. Mi piaceva fare sesso con lei, andavo matto per certi suoi particolari e non trovavo un buon motivo al perché avesse deciso di chiudere, di dimenticare tutto così, come se niente fosse stato. Ma subito dopo pensavo anche a tutti i miei casini fatti, le mie stronzate dette, ai miei vuoti, i suoi, le incomprensioni di certi nostri comportamenti, e i perché avesse deciso di prendere una decisione così netta, trovarono più risposte per ogni domanda. Pensavo a tutte queste cose, e al giorno in cui lei mi disse: – Se non funziona, non funziona.

Ma adesso non era più importante.
Tutto stava rotolando giù e sembrava che dovesse fermarsi solo al termine di uno schianto. Che stavo cercando. Credo.

Per un po’ non si mosse niente, e spesso non capivo se il tempo stava passando veloce o perdutamente lento.
Tenevo lo sguardo fisso su quella porta. Con il bianco tutto intorno e la neve che continuava a cadere, ogni tanto per mettere a fuoco la vista, dovevo chiudere forte gli occhi per un attimo e sgranarli un istante dopo.
Mentre mi stavo accendendo un’altra sigaretta, sentii il rumore di una macchina nelle vicinanze, girai lo sguardo senza muovere la testa; veniva verso di me, lenta, sentivo chiaramente il bianco che si schiacciava sotto le ruote. Guardai chi potesse essere e un po’ prima che mi passasse a fianco, presi il cellulare in mano e feci finta di conversare. Non volevo certo sembrare un maniaco, un male intenzionato o qualcosa del genere.
– Con la gente che c’è in giro non si sa mai che chiamino la polizia.

Appena passata la macchina riappoggiai il telefono sul sedile, al suo posto. Spostai per qualche secondo la visuale in un punto fisso a caso nel bianco, un sorriso amaro si formò nelle mie labbra, scossi lentamente la testa.
– Cosa sto facendo?
Ma avevo già perso troppo tempo, gli occhi tornarono subito a piantarsi su quella porta.

Passavano i minuti, senza nessun movimento atteso.
– Sei in casa o no? – mi ripetevo.
Forse, presto, avrebbe iniziato a calare il nero.
Ero diventato tutt’uno col silenzio, con il bianco, e questo iniziava quasi, in qualche modo, a non dispiacermi. In quel momento pensai a Stefano. Usciamo sempre insieme, sappiamo tutto di noi due e certo gli avrei raccontato anche questa. Lui me la descriverebbe come una situazione romantica e alla fine mi direbbe anche che io sono la prova che l’amore esiste.
Certo se Leli mi vedesse qui fuori ora, non credo che sarebbe della stessa opinione.

In quel momento voltò un’altra macchina in fondo all’incrocio, poco lontano dalla mia strada, ma non venne verso di me, rallentò per entrare nel parcheggio degli appartamenti, si fermò davanti alla sbarra chiusa in attesa che si aprisse. Si aprì. Non mi sembrava una macchina dei soliti condomini, non la riconoscevo. Entrò piano occupando il primo parcheggio libero, rimanendo per un minuto ferma li, col motore acceso.
– Ecco, ci siamo.
Cercavo la vista migliore per mettere a fuoco, allungai leggermente la schiena in avanti, il cuore mi batteva come un tamburo. Era quello che stavo aspettando, ma non riuscivo ancora a definire chi o che cosa stesse succedendo dentro quella dannata macchina.
– Ma perché non ho preso dietro quell’inutile binocolo che mi regalarono anni fa, cavolo!
Spense il motore e anche i fari.
Ero super fermo e concentrato. Lo sportello del guidatore si aprì, scese un ragazzo alto, con un po’ di barba, mi sembrava un bel tipo e non l’avevo mai visto prima. Si aprì anche lo sportello del passeggero, non ci stavo più dentro.
– Dai scendi!
La vicina di Leli.
Roberta è una ragazza giovane, bella e indipendente. Mora, capelli mossi fino alle spalle, con un corpo che non lascia spazio a dubbi e con degli occhi scuri di una che sa il fatto suo. Mai conosciuta, ma sempre gentile e sorridente per un saluto quando ci si incrociava per entrare o uscire dagli appartamenti, quando spesso, una volta, restavo lì anch’io. Leli diceva che era una che cambiava facilmente uomini, anche se ho sempre pensato che a parlare fosse più che altro un po’ di gelosia. Sicuramente non di invidia; Leli non aveva di certo niente da invidiare a Roberta, ne a nessun’altra, ma era forse, immagino, un modo per dirmi: – Stai al tuo posto, ok? – Ed io ci stavo. Anche se di pensieri su Roberta ne ho fatti e mi piace pensare che se li sia fatti anche lei su di me.
Erano entrati in casa. Buono per lui.

I minuti passavano, non so con quale cadenza, ma di certo quel tipo aveva avuto tutto il tempo per mettersi comodo tra quelle braccia. Pensavo che anch’io avrei voluto farlo con Leli in quel momento e invece non sapevo neanche se era in casa. Forse era in un’altra casa calda. Sì, calda, perché qui fuori stavo iniziando a sentire l’aria fredda del bianco e nulla di quello che cercavo si era fatto vedere. Stavo perdendo il senso, non ero più sicuro del vero motivo per cui ero fermo lì. Mi venne da pensare alla mia ex, a quando la nostra storia finì, e sentivo quella stessa sensazione. Freddo.

Spostai lo sguardo al piccolo fosso tutto coperto di bianco che seguiva questa via. Chi non conosceva la strada, oggi, non sarebbe riuscito a vederlo.

Mio padre, prima di passare ad una vita migliore troppo presto, causa un brutto male, quando nevicava senza fine amava girare in macchina senza catene o gomme termiche. Da giovane, prima che suo padre lo costringesse al lavoro con lui, correva nei rally. Era la sua passione.
In quei giorni di neve aveva sempre il sorriso di un bambino e molte volte, durante le sue avventure in strada, finiva dentro a dei piccoli fossi come questo. Mano sinistra sul volante, quella destra sul cambio, schiena leggermente staccata dal sedile, sguardo fisso in avanti poco più su del cruscotto, ma non per vedere cosa, più che altro per sentire se stava giocando bene con la frizione e il gas e se le ruote avessero una giusta presa con il bianco, l’erba e la terra sotto. Non avrebbe chiesto aiuto se prima non le avesse tentate tutte. Qualche volta riusciva, e qualche volta no. Ma era anche questo che piaceva a lui, faceva parte del gioco. Del suo.

Ok, basta.
Anche la neve che prima veniva giù lenta, si era messa a riposo.
Tutto e tutti erano al caldo, da qualche parte.
Torno a casa.

Sulla via del ritorno andavo piano, con la musica della radio alta e fino a quel momento non avevo incrociato nessuna macchina, eravamo solo io e il bianco. Il nero era appena entrato in scena su tutto il cielo, quando rivolsi lo sguardo alla mia destra, verso un piccolo fosso tutto coperto di bianco che accompagnava la strada, e vidi mio padre. Era finito dentro ancora una volta. Aveva gli occhi fissi sul cruscotto, poco più su, stava lavorando sulla frizione e il gas, da vero maestro. Era perfettamente concentrato e non si voltò neanche per guardarmi passare, ma sapevo che mi aveva visto. Avevo capito, che se ci fosse stato un modo, o una sola possibilità di uscire, ce l’avrebbe fatta.